Ieri ricorreva la 99esima Giornata mondiale del migrante e del rifugiato. Purtroppo all’Italia ne serviranno forse altrettante per imparare a fare i conti con la faccenda, o meglio con il problema, visto l’atteggiamento che il nostro Paese ha da sempre verso immigrati e richiedenti asilo. Tutti ci siamo commossi e indignati tre anni fa quando scoppiò il caso Rosarno. Dopo le violenze subite da alcuni immigrati africani venuti in Italia a lavorare alla raccolta delle arance ci furono manifestazioni di protesta della comunità migrante in Calabria, che portarono alla luce il sistema di sfruttamento e illegalità alla base della vitamina C che finisce poi sulle nostre tavole. Una volta finita sotto i riflettori, la situazione fu in qualche modo affrontata dalla politica, che provvide a smantellare i rifugi d’emergenza sorti ai margini dei campi di lavoro, fonte di rischi per la salute di chi ci viveva, e ad allestire delle tendopoli che avrebbero dovuto aiutare a gestire questa impennata stagionale di presenza sul territorio.

Oggi la situazione è tornata critica, forse più di quanto non lo fosse tre anni fa, come racconta Giuseppe Salvaggiulo in un’inchiesta pubblicata qualche giorno fa su La Stampa. «I due giganteschi dormitori nei ruderi delle fabbriche dismesse non esistono più da tre anni: uno chiuso d’imperio e abbandonato, l’altro demolito. Bisognava rimuovere, non solo psicologicamente. Ma la nuova favela tra Rosarno e San Ferdinando è, se possibile, ancora più raccapricciante. Lamiere di eternit recuperate in qualche cimitero industriale, di cui la Calabria abbonda, fanno rimpiangere gli scheletri di cemento e le pareti di ferro. Ora i tetti sono di cellophane, cartone, plastica di risulta». Questo il contesto “urbano”, ma conviene leggere per intero il reportage per farsi un’idea di ciò che può succedere in Italia quando si spengono i riflettori.

Eppure stiamo parlando di un luogo che era stato in parte recuperato e reso vivibile, almeno finché non sono finiti i soldi (giugno 2012): «In questo stesso posto, solo un anno fa, le autorità inauguravano un campo modello: 280 posti, ampie tende da quattro persone, stufe a olio, tv satellitare, bagni da campeggio, lampioni nei viottoli, rifiuti raccolti ordinatamente, mensa con cucina, presidio medico. Una Svizzera nella piana di Gioia Tauro. Il materiale era arrivato dal Viminale dopo l’interessamento del ministro per la Cooperazione Andrea Riccardi». E non si parla di spese folli, tali da giustificare il solito accanimento che sempre si leva quando si parla di investire risorse a supporto di persone che non siano considerati “dei nostri”. «L’inedito “modello Rosarno” dava vitto e alloggio a ogni immigrato con 2 euro al giorno, contro i 45 spesi generalmente dalla Protezione civile». Quindi, come conclude Salvaggiulo, «Basterebbero 50-70mila euro per ripristinare la gestione della tendopoli in modo dignitoso, efficiente e controllato fino a primavera. Solo lo 0,000006 per cento della spesa pubblica italiana e delle promesse udite tre anni fa. Ancora troppo, per Rosarno». Niente da fare, il gioco non vale la candela quando le vittime di tali ingiustizie non hanno sufficiente “peso” politico.

Anche sul tema dei rifugiati politici l’Italia ha delle grosse lacune. Dopo avere attivato una rete di accoglienza nei confronti delle persone arrivate nel 2011 a seguito dell’instabilità politica dell’Africa del Nord (primavera araba, guerra in Libia), non è stato previsto un successivo programma di inserimento per costruire le basi per una vita normale nel nostro Paese. Intanto si è deciso di prorogare il permesso di soggiorno umanitario fino al 28 febbraio, poi le strade potranno essere diverse, tra cui la possibilità di rimpatrio. Il progetto Meltin Pot Europa si è espresso molto chiaramente in merito: «Viene da chiedersi cosa significhi e come si intenda procedere per la progressiva uscita dei profughi dalle strutture di accoglienza, e in cosa consistono materialmente quegli ulteriori interventi per favorire percorsi di integrazione e di inclusione nel territorio, se ad oggi poco o nulla è stato fatto per arrivare ad un concreto superamento della fase emergenziale». Ce lo chiediamo anche noi, in attesa che l’Italia possa dire di essere un luogo di rifugio, e non territorio che non sa come gestire dei rifugiati.