È stato pubblicato qualche settimana fa sull’American Economic Review un articolo dell’economista Paolo Pinotti, che propone un’interessante analisi degli effetti della regolarizzazione degli immigrati sul tasso di criminalità di questi ultimi. In particolare, l’articolo (che si può consultare qui, è in inglese) evidenzia che la tendenza a compiere reati da parte degli immigrati che ottengono permessi di soggiorno per motivi di lavoro risulta dimezzata rispetto alla media generale. Questo indice si attesta infatti intorno all’1,1 per cento in termini generali, mentre per quanto riguarda gli immigrati regolarizzati questo il dato si abbassa dello 0,6 per cento subito dopo l’ottenimento dei documenti.

Si tratta di un dato molto significativo, anche perché ottenuto confrontando dati reali con metodo scientifico, non con quel misto di “fiuto” e sensazioni diffuse su cui spesso basiamo le nostre opinioni e su cui gioca certa politica. In particolare, si sono prese in considerazione le modalità di accesso alla regolarizzazione offerte dallo strumento del click day, ossia il giorno in cui i datori di lavoro di persone immigrate non in regola possono presentare domanda di regolarizzazione del rapporto lavorativo alla pubblica amministrazione. Queste quote sono fisse e stabilite di anno in anno dal governo. C’è dunque una data e un’ora in cui si apre la possibilità di “cliccare” per sottoporre la domanda di regolarizzazione (saltando tutta la burocrazia normalmente necessaria per innescare lo stesso processo), dopodiché tutte quelle ricevute vengono processate e si procede a concedere i permessi fino al raggiungimento della quota, mentre le altre vengono scartate. Conta l’ordine cronologico di arrivo, ed ecco perché ogni anno si registra un picco di traffico sui siti dei Ministeri dell’Interno e del Lavoro. «Nel 2007, l’anno preso ad analisi da Pinotti – scrive il Sole 24 Ore –, il click day è scattato alle 8 di mattina: l’ultima domanda accettata risale a meno di mezz’ora dopo (8,27) e dalle 9,40 in poi il traffico sul sito risulta pressoché nullo. Sulle circa 610mila richieste pervenute, solo il 28 per cento (170mila) sono state accolte».

Secondo l’analisi di Pinotti, per i 170mila regolarizzati il tasso di criminalità è calato di oltre la metà già nel 2008, mentre per tutti gli altri è rimasto mediamente stabile. Significa che il 70 per cento dei richiedenti è rimasto esposto alla possibilità di commettere reati, compresi quelli violenti violenti, anche a causa dell’impossibilità di lavorare nell’alveo della legalità. Ecco perché Pinotti presenta le conclusioni del suo lavoro come spunto da cui partire per discutere a livello politico le future politiche sull’immigrazione. Inoltre, aggiunge Pinotti, all’interno degli immigrati irregolari, quelli che reagiscono più positivamente a politiche di inclusione sono proprio quelli con le peggiori opportunità lavorative nella loro condizione di irregolarità. Dunque le reazioni più virtuose arrivano da quelli più penalizzati dalle dinamiche della clandestinità, ed è lì che si potrebbe agire per fare in modo di sottrarre queste persone alla possibilità di peggiorare ulteriormente la propria condizione. Lo studio pone l’accento sul ruolo dei miglioramenti nelle opportunità di impiego e negli stipendi come vettori di cambiamento nei comportamenti criminali degli immigrati che escono dall’irregolarità.

Lo status di regolare porta l’immigrato a guardare con fiducia alla possibilità di essere incluso anche negli strumenti di welfare previsti per i cittadini, dunque costituisce un incentivo ad abbandonare eventuali comportamenti criminali tenuti in precedenza. Con spirito imparziale (come sempre dovrebbe essere in ambito scientifico), Pinotti non nasconde il ragionamento che facilmente può venire in mente pensando a un futuro ampliamento delle quote di regolarizzazione previste: un aumento della pressione migratoria negli anni successivi. La sensazione di “porte aperte” potrebbe portare ancora più persone a tentare di inserirsi nel mondo lavorativo italiano, nella speranza di essere poi regolarizzati. Va detto che alcuni studi in questo senso sono stati fatti per il caso degli Stati Uniti, e non si sono trovate prove evidenti di questa tendenza. Ma la possibilità va comunque tenuta presente.

Uno dei problemi del sistema attuale risiede nel principio del matching a distanza previsto dalla legge per la concessione di permessi di soggiorno per motivi di lavoro: questi dovrebbero essere assegnati a stranieri residenti all’estero, selezionati e “chiamati” in Italia dai futuri datori di lavoro. Si tratta di un sistema che nella pratica ha poche probabilità di funzionare, e infatti la maggior parte (80 per cento) dei partecipanti ai click day sono immigrati irregolari. Segno che prima arrivano le persone, poi i contratti. Pinotti, rispondendo al Sole 24 Ore, offre alcuni spunti per una futura discussione in merito: «“Bisognerebbe favorire l’incontro con permessi di soggiorno temporanei per cercare un lavoro legale. Invece ora si pretende questo “match a distanza” che non si verifica mai”. Gli impieghi cercati e assunti dai migranti rientrano spesso in settori poco coperti dagli italiani, anche se c’è chi parla ancora di un “furto” alla forza lavoro della Penisola e una spinta al ribasso delle retribuzioni. Una tesi che non convince Pinotti: “Mi sembra uno slogan populista. Dai dati emerge semmai una certa complementarità, perché i migranti vanno a coprire segmenti totalmente diversi. I veri problemi possono esserci in paesi come Stati Uniti e Regno Unito, dove il mercato del lavoro è molto meno regolamentato e si crea una competizione con i lavoratori domestici”».

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