barconi
Fonte foto.

Come ogni estate, si ripetono attorno alle nostre coste le drammatiche scene di avvistamenti e soccorsi a barconi e pescherecci alla semi-deriva. Imbarcazioni cariche di persone che non hanno più nulla da perdere e di speranze di trovare al di là del Canale di Sicilia una nuova vita. Grazie all’operazione Mare Nostrum, avviata a novembre dello scorso anno, la Marina italiana ha salvato migliaia di vite umane, pattugliando i confini delle acque territoriali italiane e agendo in due direzioni: da un lato salvare i migranti, dall’altro perseguire chi da questa emergenza umanitaria trae profitto. Al di là del rimpallo di responsabilità tra Italia ed Europa, con quest’ultima che nega di avere risorse per affiancare la missione italiana, occorre studiare strategie nuove ed efficaci per affrontare il continuo afflusso di persone in fuga da guerre e carestie, che cercano di ricongiungersi a parenti e amici già stabilitisi in varie parti d’Europa.

Luigi Manconi, presidente di “A buon diritto”, fa una proposta interessante, che potrebbe mettere in pratica quell’adagio che tante volte è stato proferito dai politici più xenofobi, senza una reale intenzione di intervento, ma giusto per lavarsi la coscienza: «Aiutiamoli, ma a casa loro». Il modo migliore per creare paura e diffidenza nella popolazione è infatti colpevolizzare il migrante, reo di affrontare terra e mare per raggiungere l’Europa, mentre invece dovrebbe stare a casa ad aspettare gli aiuti italiani, sempre che prima non arrivi una bomba ad abbattere la loro abitazione. Questa l’idea di Manconi: «In estrema sintesi: anticipare e avvicinare la domanda di protezione da parte dei richiedenti asilo nei luoghi dove transitano i grandi flussi di fuggiaschi. In altre parole, la volontà di ottenere lo status di rifugiato può essere manifestata già nei Paesi (Giordania, Libano, Egitto, Tunisia, Marocco, Algeria) dove si aggregano migranti e profughi: per evitare loro di affrontare il mare in quelle condizioni illegali e pericolose che hanno determinato decine di migliaia di morti. L’attuazione del piano di ammissione umanitaria prevede una collaborazione tra gli Stati europei in modo che attraverso le rappresentanze diplomatiche sia concesso, a chi ne abbia diritto, un visto per attraversare il Mediterraneo in condizioni legali e sicure. Questa è solo la prima parte della procedura che sarà completata e formalizzata nei luoghi di destinazione. Più nel concreto, le istituzioni coinvolte saranno la rete diplomatica del Servizio europeo per l’azione esterna e quella dei singoli paesi dell’Unione, l’Unhcr e le organizzazioni umanitarie internazionali».

Questo approccio si tradurrebbe in una inversione di tendenza importante rispetto alle politiche europee degli ultimi anni. Si andrebbe infatti verso una “smilitarizzazione” dei confini e verso uno spostamento della questione verso l’ambito diplomatico. Occorre anche capire che chi lascia il proprio Paese per venire in Italia (e da qui transitare verso altre destinazioni) non è necessariamente povero e ignorante. Forse, a causa delle condizioni di viaggio, arriverà a mettere piede sul territorio italiano in condizioni estreme, ma ciò non cancella il suo passato. «Oggi – scrive Alessandra Ziniti su Repubblica  quelli che fino a qualche tempo fa venivano chiamati “migranti economici”, quelli in buona sostanza da rispedire in patria – tunisini, egiziani, marocchini – sono appena il dieci per cento dei profughi che arrivano in Italia. Gli altri sono tutti nelle condizioni di richiedere l’asilo politico: fuggono sì dalla violenza e dalle guerre civili dei Paesi del centro Africa, ma da mesi ormai fuggono soprattutto dalla Siria e dalla Palestina. Gente che fino a un anno fa mai avrebbe immaginato di potersi imbarcare su un peschereccio o un gommone per attraversare il Canale di Sicilia e che ai trafficanti di uomini arriva a pagare anche 10mila euro per portare tutta la famiglia in Europa». Sono persone come noi, insomma, solo che sono in viaggio, e non per scelta. O meglio, hanno fatto l’unica scelta possibile per sopravvivere. È un problema difficile da gestire, ma incolparli per questo ci sembra un atto crudele e irresponsabile.