Alla luce dell’emergenza umanitaria che sta coinvolgendo la Siria (il conflitto è iniziato ufficialmente il 15 marzo 2011, poco meno di cinque anni fa) e altre aree del Medio Oriente, l’Europa sta facendo i conti negli ultimi anni con flussi migratori di difficile gestione. Tra le possibili misure che si stanno prendendo in considerazione nell’ultimo periodo ce n’è una che viene presentata come ormai inevitabile, seppure dolorosa: la sospensione di Schengen. La Convenzione di Schengen è un trattato internazionale che dal 1999 fa parte del quadro istituzionale e giuridico dell’Unione europea, e che prevede l’apertura delle frontiere tra gli Stati membri. Quella della libertà di movimento è percepita dai cittadini come una delle più importanti conquiste raggiunte dall’Europa, come dimostrano i dati dell’Eurobarometro. Sospenderla vorrebbe dire portare al fallimento di uno dei pilastri su cui si basa l’adesione all’Unione.
Al di là degli ideali comunitari, però, c’è una domanda molto concreta che bisogna porsi prima di riaprire gli uffici di frontiera: quanto costa? La Francia ha messo in piedi un gruppo di lavoro per provare a calcolarli, e pochi giorni fa è stato pubblicato un rapporto. «I paesi europei potrebbero subire una perdita di 110 miliardi nell’arco di dieci anni – riporta il sito sbilanciamoci.info –, l’equivalente dell’0,8 per cento del Pil dell’area». Anche se si tratta di uno studio teorico, non si deve dimenticare che già oggi Schengen sta subendo delle sospensioni da parte di singoli Stati: Germania, Austria, Francia, Ungheria, Slovenia, Svezia, Norvegia e Danimarca hanno, di fatto o meno, ripristinato i controlli al confine (attualmente o comunque negli ultimi mesi).
La Commissione europea, ignorando questa analisi, sta elaborando (su richiesta dei ministri dell’Interno degli Stati membri) una procedura che permetta la sospensione della Convenzione per due anni. Vediamo cos’altro si dice nello studio francese in merito alle conseguenze di una misura del genere: «Gli scambi commerciali all’interno dell’Unione subirebbero una diminuzione compresa tra il 10 e il 20 per cento – pari all’introduzione di una tassa del 3 per cento sugli scambi commerciali, come precisa lo studio – con la perdita prevista del 0,8 per cento del Pil, quasi un punto percentuale del prodotto interno lordo dei paesi interessati. Una percentuale corrispondente a 28 miliardi per la Germania, 13 miliardi per l’Italia, 10 per la Spagna e 6 per l’Olanda». Ovviamente i disagi si ripercuoterebbero anche sui trasporti, con il ripristino delle proverbiali code in entrata e in uscita dai Paesi nei picchi di traffico. Un fenomeno che è già realtà per chi ha reintrodotto i controlli: «Ai confini tra stati si moltiplicano le code di tir e automobili: attese che non ingolfano solo le strade europee, ma anche le casse, conseguenza diretta dell’aumento dei costi per i trasporti. La reintroduzione dei controlli alle frontiere, inoltre, sta già impattando negativamente sulla qualità di vita, e sulle tasche, dei lavoratori transfrontalieri. A questi aspetti vanno aggiunti i costi che i paesi dovrebbero sostenere per collocare alle frontiere gli addetti ai controlli».
Siamo sicuri di poterci permettere una politica così miope e semplicistica? “Tutti fuori”, “Tutti a casa loro”, sono espressioni diventate molto comuni negli ultimi anni in Italia, anche grazie a chi passa le proprie giornate a fomentare paure e sentimenti xenofobi. Ma si tratta di misure che, oggettivamente, farebbero più danni di quelli che vorrebbero risolvere. L’Unione europea intima a Grecia e Italia di predisporre nuove strutture per la registrazione (e la detenzione) di chi arriva, nonostante i miglioramenti fatti da entrambi i Paesi in questo senso (in pochi mesi l’Italia è passata dal 36 all’87 per cento delle registrazioni). Per arrivare al 100 per cento entro marzo, «la Commissione sottolinea la possibilità di usare la forza per effettuare i rilievi dattiloscopici». Espressioni inquietanti.
Nel frattempo, le politiche di redistribuzione dei migranti all’interno degli Stati sono praticamente ferme («dei 160mila migranti che i Paesi europei avrebbero dovuto accogliere da Italia e Grecia, all’8 febbraio 2016 risultano partite solo 279 persone da Roma e 218 da Atene»). Inoltre la diplomazia, non solo europea, sta dimostrando tutta la propria incapacità di intervento per porre fine al conflitto siriano. L’Europa chiede agli Stati di mostrare i muscoli, ma la sua capacità di pensiero appare piuttosto debole.
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