Prima hanno impedito l’ingresso, ora procrastinano la possibilità di uscirne. Stiamo parlando dei Cie (Centri di identificazione ed espulsione) in cui sono detenuti gli immigrati irregolare, e cioè privi di documenti identificativi. Dal primo di aprile, l’accesso a questi centri è impedito alla società civile. La circolare n. 1305 del Ministero dell’interno li ha infatti resi inaccessibili a giornalisti, sindacati, esponenti dell’associazionismo antirazzista umanitario nazionale e internazionale. Solo alcune organizzazioni umanitarie, arbitrariamente scelte, posso accedervi. A questa sospensione del diritto-dovere all’informazione, si è aggiunto nei giorni scorsi un decreto-legge, il n. 89 del 23 giugno (già in vigore e in attesa della conversione in legge da parte del Senato, dopo che la Camera ha già votato a favore del testo), che dispone un prolungamento della detenzione per i migranti in attesa di identificazione da sei a diciotto mesi. Ciò che pensiamo di questa norma è ben sintetizzato dalle parole di Giuliano Pisapia, neo sindaco di Milano e firmatario di un appello contro la norma: «Se si pensa che, in base ai nostri princìpi costituzionali la libertà personale è inviolabile e, solo in presenza di gravi indizi di colpevolezza e di “specifiche ed inderogabili” esigenze cautelari (inquinamento probatorio, concreto pericolo di fuga, reiterazione della condotta criminosa) è ammessa la carcerazione preventiva […] ben si comprende quanto contrasti con i princìpi fondanti di uno stato di diritto la “detenzione” nei Cie (spesso in condizioni anche più disumane di quelle di molte carceri) di chi non solo non ha commesso alcun reato, ma spesso non è neppure irregolare dal punto di vista amministrativo (il concetto di trattenimento per identificazione può coinvolgere anche chi, pur in regola, non è momentaneamente in possesso di permesso di soggiorno o altro documento di identificazione)». Interessante anche il passaggio in cui lo stesso Pisapia fa notare che «nessuno ha mai evidenziato che, ad esempio, la custodia cautelare in carcere non è permessa per reati che prevedono la pena massima di quattro anni. E che anche nei casi in cui vi sono i presupposti per la carcerazione preventiva, questa ha i seguenti limiti massimi dal momento dell’arresto al momento del rinvio a giudizio: tre mesi per reati che prevedono la reclusione non superiore a sei anni; sei mesi se la pena massima prevista per quel reato è superiore a sei anni».
Come abbiamo visto nei giorni scorsi, indirizzare a misure di detenzione preventiva cittadini illustrissimi porta ogni volta a mettere in discussione la legittimità costituzionale di questo provvedimento, mentre c’è chi addirittura parla, come Giuliano Ferrara ai microfoni del Tg3, di «consegnare Alfonso Papa al più grande partito d’Italia, quello della magistratura», sottolineandone implicitamente la faziosità. È bene che il carcere preventivo sia mantenuto come soluzione ultima ed estrema, in quanto chi la subisce non è ancora stato processato e quindi vale la presunzione d’innocenza. Ma non è chiaro a cosa possano giovare ulteriori sei mesi di detenzione quando, secondo le statistiche, «se uno straniero non viene identificato durante le prime settimane […] è quasi impossibile che, col passare dei mesi, si arrivi all’identificazione». Si rifletta bene prima di firmare decreti del genere, in nome di tutti gli uomini e donne che si trovano reclusi in attesa di giudizio, in carceri sovraffollate o in centri di cui poco si sa, ma da cui, guarda caso, arrivano sempre più spesso notizie di tentati suicidi.