Senza troppi clamori, con la fine del 2015 è sparita dal panorama della comunicazione sociale la Misna (Missionary international service news agency), storica agenzia di stampa internazionale fondata nel 1997 dal padre comboniano Giulio Albanese assieme ad alcune congregazioni missionarie. La notizia è arrivata all’improvviso, lo scorso 23 dicembre, quando la redazione (composta da quattro giornalisti, due collaboratori e tre traduttori) ha saputo che di lì a una settimana si sarebbe trovata senza un lavoro. A nulla sono valsi gli appelli, non solo del mondo ecclesiastico, affinché restasse in vita questo importante presidio delle realtà periferiche del mondo che faticano a trovare voci in grado di raccontarle.

Resta da chiarire come mai gli istituti missionari proprietari dell’agenzia abbiano deciso di rifiutare la proposta della Cei (Conferenza episcopale italiana), che consisteva in un’interessante offerta: «Coprire il bilancio per due anni; fornire un service composto da Avvenire, TV2000, Radio in Blu e Sir; offrire una persona per gestire la raccolta dei fondi», spiega a La Stampa Giulio Albanese. «La testata rimane proprietà degli istituti missionari che hanno deciso di non cederla. Non abbiamo nessuna possibilità di affittarla o rilevarla. Hanno fatto tutto alla perfezione per legarci le mani», racconta con rammarico a Redattore Sociale Alessia De Luca, che ha lavorato per otto anni nella Misna.

Il panorama mediatico globale non è dei più rosei e non c’è testata o gruppo editoriale che non stia vivendo l’esperienza di reinventarsi ogni giorno al fine di trovare un modello economico sostenibile, per fare fronte agli alti costi della stampa e della distribuzione, mentre il traffico maggiore si sposta su internet, che al momento però non garantisce margini di guadagno significativi. La “missione” informativa si è dovuta confrontare con una realtà di razionalizzazione dei costi, ma chi ha messo i soldi finora per fare funzionare la macchina non se l’è sentita di affrontare la sfida. «È mancata la visione dell’importanza strategica dell’informazione, da parte della direzione degli istituti. Il mondo missionario ha fatto e continua a fare molto bene, ma sta invecchiando. Così è stato innescato questo meccanismo di eutanasia», denuncia Albanese. Il vantaggio era che, a differenza delle normali testate, che per coprire gli angoli più remoti del globo devono affidarsi a fonti indirette o a costosi inviati, il progetto Misna aveva già a disposizione una rete fittissima di contatti sparsi per il mondo: i missionari. Il passaggio successivo è stato farli diventare anche giornalisti (ma nel corso degli anni sono stati assunti anche giornalisti professionisti), con corsi di formazione e incontri periodici col direttore. «Io andavo ogni anno a incontrarli – racconta Albanese –. Erano diventati molto bravi a rispondere alle cinque W della professione, chi, cosa, dove, quando e perché, fornendo informazioni che nessun altro aveva».

Spesso si tratta di territori politicamente instabili, dove realizzare progetti di solidarietà è reso pericoloso e difficile dagli alti livelli di corruzione, dalla violenza dei governi e delle formazioni di ribelli che spesso nascono in opposizione alle autorità. La diffusione di informazioni doveva superare gli stessi ostacoli, per portare a conoscenza del mondo fatti che altrimenti sarebbero rimasti confinati nei luoghi in cui accadevano: «La denuncia dei massacri avvenuti nel 1998 nell’ex Zaire, le guerre in Guinea Bissau, Sierra Leone, i sequestri dei missionari. In genere, come per l’ex Zaire, arrivavano subito le smentite dei governi, in quel caso quello ruandese che era responsabile. Poi però la verità veniva sempre a galla». Con i sequestri i missionari diventavano direttamente parte della notizia, come accaduto anche ad Albanese: «Nel 2002, in Uganda. Eravamo entrati in contatto con uno dei gruppi più pericolosi, il Lord’s Resistance Army, e i ribelli non ci avevano trattati male. Il governo però aveva cambiato idea e deciso di attaccarci. Restammo prigionieri per due giorni dentro una capanna di metallo, senza mangiare, finché non ci liberarono e si scusarono».

Il mondo dell’informazione non è più quello del 1997, nel frattempo sono nate nuove realtà che raccontano quelle parti di mondo su cui un tempo si sapeva poco. Resta il fatto che la chiusura della Misna rappresenta una perdita per tutti, perché una penna e un taccuino, un registratore o una videocamera, sono strumenti che possono fare luce dove prima giustizie e violenze venivano perpetrate nella certezza dell’impunità. Ora quell’ombra, temiamo, potrebbe farsi un po’ più spessa.

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