Il mondo dell’informazione, ormai da alcuni anni, si accompagna sempre a un aggettivo mutuato dal mondo dell’informatica: online o offline. È interessante, per chi fa informazione come per chi ne usufruisce, seguire la discussione in merito alla direzione che via via prende il termine informazione, in rapporto all’evolvere del contesto in cui questa viene prodotta e consumata. Dal punto di vista dei linguaggi e degli schemi narrativi, così come da quello dei sistemi di produzione e distribuzione delle news. Nel primo caso, la necessità di essere sempre “sul pezzo” in tempo reale (perché chi aggiorna prima la home page riceve più clic, e quindi più guadagni dalle inserzioni pubblicitarie) ha portato alla predominanza di uno stile “strillone” sulle maggiori testate.
La prassi è quella di pubblicare immediatamente un titolo relativo alla notizia che in quel momento sembra più funzionale a catturare l’attenzione (anche con errori, tanto poi si correggeranno in un secondo momento, o al massimo si cancellerà proprio la notizia se dovesse rivelarsi una “bufala”). Può essere un grave incidente, la morte di un personaggio importante, una conquista scientifica, un caso di cronaca ritenuto particolarmente rilevante. Oppure i virgolettati dei politici, che spesso non preludono a nessuna conseguenza pratica, ma servono a creare una narrazione di fatta di “botta e risposta” che può guidare la lettura dell’attualità per qualche giorno, salvo poi dissolversi nel nulla.
Per citare un esempio recente, basti pensare alla vicenda della candidatura a sindaco di Roma di Giorgia Meloni. Prima del cosiddetto “Family day” si parlava di Meloni come possibile candidata. Durante la manifestazione l’annuncio della gravidanza e la conseguente rinuncia alla corsa. A distanza di settimane arrivano i messaggi vagamente macisti di Guido Bertolaso e Silvio Berlusconi (che suonano più o meno come uno «Stia a casa a fare la mamma»), quindi la risposta di Meloni di un possibile ripensamento e il definitivo (?) annuncio della candidatura. I politici, chiaramente, sono al contempo manovratori e manovrati da questo tipo di dinamiche. Una volta chiamati in causa, non possono non rispondere a una provocazione, ma al contempo (con l’aiuto dei loro consulenti di comunicazione) sanno benissimo come farlo per creare hype attorno al loro personaggio.
Un discorso simile riguarda gruppi e partiti apertamente xenofobi, che con la crisi umanitaria relativa ai profughi siriani hanno ottenuto un’insperata attenzione e qualche apparente successo politico, presto riassorbito da tendenze più moderate. Ne parla Michele Serra nella sua rubrica su La Stampa: «Evidentemente i media riescono benissimo a monitorare le urla (Salvini, Le Pen, Pegida, Afd e compagnia brutta), non altrettanto le opinioni ragionate. Dovessimo giudicare solo dai decibel, ovunque, non solo nei Paesi del blocco post-sovietico, populismi e nazionalismi dovrebbero avere già travolto da tempo gli ultimi argini della cultura democratica europea. Non è accaduto. Nel frattempo, qualche microfono venga tarato, per cortesia, sulle emissioni vocali ordinarie».
Sul secondo aspetto, ossia il sistema di produzione e distribuzione delle notizie, ci troviamo in un momento molto delicato per gli editori. Questi hanno infatti visto crollare il proprio peso all’interno del mercato dell’informazione in quanto il prodotto cartaceo, che prima era affiancato solo dalla televisione, oggi deve fare i conti con internet e con la gratuità delle notizie. Le diverse aziende (che in Italia sono sempre più concentrate) non hanno ancora capito come elaborare modelli di business di successo in ambito digitale e si sono trovate costrette a seguire ciò che l’evoluzione tecnologica ha portato con sé. Dapprima, appunto, la difficoltà di far pagare l’utente per i contenuti. Dall’altro l’ingresso prepotente sulla scena dei social network, soprattutto Facebook, diventato un nuovo distributore di notizie grazie al servizio Instant Articles (in procinto di essere reso disponibile per tutte le testate), che permette di ospitare direttamente sui server dell’azienda di Mark Zuckerberg gli articoli prodotti dai giornali.
Sulle conseguenze di questo modello ragiona Emily Bell, in un suo intervento a Cambridge poi adattato per la Columbia Journalism Review e infine tradotto dal Post: «Il fatto che una classe di persone tecnicamente capaci, con coscienza sociale, successo finanziario e grande energia come Mark Zuckerberg stia appropriandosi delle funzioni e del potere economico dai vecchi guardiani compassati, arroccati politicamente, e a volte corrotti a cui eravamo abituati in passato, porta grandi vantaggi. Ma dobbiamo essere consapevoli della profondità di questo cambiamento culturale, economico e politico. Stiamo cedendo il controllo di parti importanti della nostra vita pubblica e privata a una manciata di persone che non sono state elette per questo e non rispondono del loro operato. […] Il destino degli editori tradizionali è una questione molto meno importante rispetto al tipo di società informata che vogliamo creare e a quale sia il modo per costruirla».
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