
In questi giorni di sentenze di secondo grado che ribaltano quelle di primo grado, viene da chiedersi se si possa dichiarare prosciolto anche lo Stato, per insufficienza di prove. La nostra non è una caccia al capro espiatorio a tutti i costi, ma di uno o più responsabili per fatti gravi, come la strage del terremoto dell’Aquila, la morte di Stefano Cucchi e la minaccia continua alla sicurezza di Roberto Saviano. Si dice che le sentenze si rispettano, non si commentano. Siamo d’accordo solo sulla prima parte. È chiaro che il principio di legalità impone il rispetto delle decisioni dei giudici, ma lo è altrettanto il fatto che alle persone e agli organi di informazione è lasciato il diritto di esprimere le proprie considerazioni su ciò che accade nelle aule di tribunale.
Non sta a noi sostituirci ai giudici, che di certo hanno avuto modo di studiare a fondo i casi che abbiamo citato e conoscono perfettamente le norme. Non possiamo però evitare di immedesimarci nei familiari delle vittime, nel caso dell’Aquila e nel caso Cucchi, o nella vittima stessa, nel caso di Saviano. Anni passati ad aspettare che giustizia sia fatta, con la fiducia nel cuore che alla fine i colpevoli avrebbero pagato, che si sarebbe usciti dal tribunale un giorno con l’amarezza di una vita che non potrà più recuperare la serenità di un tempo, ma con la pace di chi può dare un nome al proprio problema. Come chi senta di avere un disturbo di salute, ma pur consultando vari medici non riesca a trovarne uno che sappia dare un nome alla sua malattia, alla sua sindrome. Trovare questo nome non lo rimetterebbe automaticamente in salute, ma aiuterebbe la mente a visualizzare la causa del male e quindi a combatterlo e superarlo.
Queste tre storie giuridiche hanno in comune il fatto di lasciare nelle persone coinvolte un senso di vuoto, di sospensione. Una sensazione che si riflette anche in chi, da semplice cittadino estraneo alle vicende, decida di seguire l’andamento dei processi, nell’attesa di confermare o trovare la fiducia nelle istituzioni e nei poteri dello Stato. Non c’è bisogno di avere amici o parenti interessati dai fatti dell’Aquila, o di conoscere la famiglia Cucchi, né Roberto Saviano, per intuire il vuoto che deve accompagnare l’uscita dei protagonisti dai tribunali, mentre con la faccia a terra sentono probabilmente riecheggiare le parole della sentenza, prima di essere distratti dalle domande dei giornalisti. Non vogliamo necessariamente che ci si ravveda sulle persone assolte. Se i giudici hanno deciso così avranno motivi fondati, aspettiamo di leggere le motivazioni delle sentenze. Però qualcuno ha ucciso Stefano Cucchi, qualcuno ha rassicurato i cittadini dell’Aquila sul fatto che le loro case avrebbero retto allo sciame sismico, così come a Roberto Saviano è stato intimato di interrompere il suo prezioso lavoro di inchiesta sulla criminalità organizzata. Nel primo caso, però, coloro che erano stati condannati in primo grado sono stati assolti; nel secondo è stato condannato (con pena sospesa) solo l’esponente della protezione civile che ha rassicurato i cittadini (sulla base delle rilevazioni del comitato scientifico, che a quanto pare non ha colpe); nel terzo sono stati dichiarati colpevoli gli avvocati che hanno letto il messaggio intimidatorio, ma non Francesco Bidognetti e Antonio Iovine, i boss della Camorra che hanno dettato il testo.
Questa concatenazione di eventi lascia una sensazione strana: da un lato il nostro rispetto per le istituzioni e la magistratura ci impedisce di scagliarci contro decisioni che ci appaiono ingiuste magari per una questione emotiva piuttosto che per una reale conoscenza approfondita dei fatti. Dall’altra, c’è il rischio di abbandonarsi all’idea di scorgere una debolezza nel sistema giuridico, costretto a piegarsi a interessi particolari che stanno più in alto, che in qualche modo devono garantire che tutto resti com’è, che le stragi restino impunite, che gli agenti e i medici che hanno causato la morte di Stefano Cucchi restino protetti, che i boss della malavita non paghino per le loro minacce. Non è così, ne siamo certi, è molto più probabile che si tratti di uno sfortunato incastro di avvenimenti infausti. Vogliamo convincerci di questo, rifiutando il pensiero recondito che affiora dall’inconscio, che mira a farci credere che viviamo in un Paese dove la giustizia è per pochi, e che i deboli sono condannati ad attendere una giustizia che ferma sempre altrove.