
Il paradosso è scritto: muoversi restando fermi. L’immobilità è stata spesso la scintilla che ha acceso i grandi moti della storia. Pensiamo a Rosa Parks, che il primo dicembre 1955 decise, semplicemente, di sedersi sul pullman, ma in un posto riservato ai bianchi, mentre lei era di colore. Non sapeva che il suo gesto, e il conseguente arresto, avrebbe dato il via a un movimento per i diritti civili della comunità afroamericana, guidato da un pastore protestante di nome Martin Luther King. Il 15 maggio scorso, a sedersi sono alcune centinaia di giovani, che si danno appuntamento alla Puerta del Sol di Madrid. Di lì a breve lo sgombero, che ottiene come unica conseguenza di moltiplicare gli aderenti alla protesta: dal giorno dopo cominciano a riempirsi le piazze di Barcellona, Siviglia e Valencia. Trascorso un mese, tra iniziative, sgomberi ed elezioni amministrative, i manifestanti si contano: 250mila. Si danno appuntamento per il 23 luglio, di nuovo a Madrid, ma l’idea è di arrivarci a piedi, attraverso una marcia che da sei regioni si muove, già dal mese di giugno, in direzione della capitale. Ad andare in piazza, assieme ai giovani spagnoli, sono le loro frustrazioni per i problemi che devono affrontare ogni giorno, disoccupazione in testa, che tra gli under trenta sfiora il 45 per cento. Protestano anche contro il cosiddetto Patto dell’euro sancito da Germania e Francia e per chiedere una nuova legge elettorale sul modello proporzionale puro.
«Continueremo a voltare le spalle a entrambe le campane politiche, stanchi di un bipolarismo tossico che sta distruggendo il Paese», spiega Marta Diaz, coordinatrice a Valencia della Commissione di appoggio dell’accampamento, sulle pagine di Vita. Una dichiarazione, questa, che calzerebbe bene anche se a parlare fosse un “indignado” italiano. A ben vedere, gli obiettivi della protesta spagnola potrebbero essere presi a modello anche dai giovani di casa nostra: eliminare i privilegi della classe politica, controllo della banche, diritto alla casa, lotta alla disoccupazione, diminuzione della spesa militare e democrazia partecipata. Secondo Piero Ignazi, i nostri giovani tardano a scendere in piazza perché ancora non sono alle strette quanto i loro omologhi spagnoli: «La protezione loro assicurata dai patrimoni accumulati dalle generazioni più anziane […] e il clima da imbonimento collettivo a base di grandi fratelli e veline ha fin qui “distratto” i ventenni. Ma ora si stanno cumulando fattori favorevoli a una loro mobilitazione. Uno di questi è lo stimolo che viene dall’estero […] Un altro riguarda il collasso del sistema di potere berlusconiano e dell’ideologia forzaleghista fin qui dominante; la percezione di un fine d’epoca libera sempre delle energie in cerca del nuovo. Un terzo rimanda alla debolezza dell’opposizione che non incarna un’alternativa appetibile per gli indignados nostrani». Un focolaio importante d’indignazione è nato alcuni mesi fa a Parma, dove la popolazione civile, riunita sotto la sigla “La Piazza”, ha iniziato a far sentire la propria voce dopo la serie di arresti per tangenti che ha colpito la classe politica emiliana, che ha portato allo scoperto lo strettissimo rapporto esistente tra politica e imprenditoria locale, sperpero di soldi pubblici e instillato dubbi su alcune operazioni di riqualificazione urbana. Già sei volte sono scesi in piazza i cittadini parmigiani, e non sembrano intenzionati a mettersi da parte nonostante l’arrivo dell’estate. Speriamo che il risveglio sia contagioso.