Muhammad Alì non è stato solo il più grande campione di boxe di sempre, ma anche un personaggio la cui vita ha incrociato più volte il corso della Storia. Pubblichiamo la rilettura di Roberto Escobar dell’incontro del 1974 tra Alì e George Foreman, che si tenne a Kinshasa, capitale di quello che allora si chiamava Zaire. L’articolo originale è uscito sul Sole 24 Ore.

«Lasciammo l’Africa in ceppi, ferri e catene. Ora torniamo in un’aura di splendore e di gloria scintillante». Così dice nel 1974 l’afroamericano Don King appena giunto in Zaire, dove gli è riuscito d’organizzare l’incontro del secolo, quello tra George Foreman e Muhammad Alì. A raccogliere queste sue parole orgogliose c’è una troupe guidata da Leon Gast. Compito del regista americano è documentare non tanto l’evento sportivo quanto il concerto di James Brown, B.B. King, Miriam Makeba e di altri a esso collegato. E però, ventidue anni dopo, dalle immagini girate nasce Quando eravamo re (When We Were Kings, Usa, 1996). Ora, dopo altri vent’anni, morto il grande Muhammad Alì, torniamo a vedere quel film lontano, che ci ha raccontato e continua a raccontarci l’avventura di un eroe.

Presi dalle immagini di Alì che, sotto i colpi di Foreman, si comporta come da bambini immaginavamo facesse il Piccolo Sarto della favola con il Gigante, ci viene da pensare che il tempo ha contribuito a fare di Quando eravamo re un’epica. Da protagonisti che sarebbero dovuti essere, James Brown, B.B. King e Miriam Makeba si son ridotti a comprimari, e la loro musica s’è trasformata nella colonna sonora della rievocazione di gesta antiche e meravigliose.

Sullo sfondo del mito c’è ancora un residuo di storia. C’è, in primo luogo, lo Zaire di Mobutu Sese Seko, con lo stadio di Kinshasa che, proprio sotto il ring, nasconde un migliaio di prigionieri. C’è poi il giro d’affari pubblicitario che, privilegiando il mercato televisivo d’America, induce gli organizzatori a far svolgere l’incontro alle 4 del mattino. Ma è proprio questo residuo il primo avversario che Alì sconfigge. Basta che la macchina da presa lo inquadri, perché sia, non dimenticata, ma certo superata ogni bruttura politica, e anche ogni prosaicità economica. «Ho combattuto con un alligatore!», annuncia al mondo, «Mi sono azzuffato con una balena. Ho assassinato (murdered) una roccia». E intanto sorride, determinato e dolce, coraggioso e indifeso.

Non è un banale incontro di pugilato, quello che Alì sta per affrontare, ma qualcosa di iperbolico, al pari della sua magnifica improntitudine. È, ancora, qualcosa di straordinario, come “al di là dell’ordine” è sempre, nel mito e nella favola, l’avventura dell’eroe. Per preparare questa fuoriuscita dalla storia e dalla cronaca, il montaggio lega il volto e la voce di Alì con le danze spontanee di uomini e donne e bambini zairesi per le strade. Sembra che non altro si canti e non altro si celebri a Kinshasa, in questi giorni del ’74, se non la sfida che un coraggioso, impaurito Piccolo Sarto ha lanciato al Gigante.

È qui il senso mitico ed eroico di Quando eravamo re. Alì ha paura, e questa paura è la sua forza, la sua grandezza. Foreman ha appena distrutto Joe Frazier, che a sua volta aveva sconfitto Alì. Ma c’è nel film qualcosa di più implicito e inquietante. Foreman è una presenza incombente e muta, una materialità arcaica e salda come quella della roccia che Alì, con tenera spavalderia, giura di avere murdered.

L’aspirante eroe sa che gli toccherà affrontare la caparbietà del fato, il silenzio minaccioso della morte. Se così non fosse, come potrebbe mai aspirare a esserlo, eroe? Nella favola come nel mito, eroe è solo il piccolo uomo che, contro ogni ragionevolezza, esce dall’ordine, affronta il mostro, sconfigge la morte. Dimostra di saperlo bene Mailer quando, nello spogliatoio di Alì, dice che «was like a morgue», somigliava a un obitorio.

E ora eccolo, Alì, di fronte alla forza caparbia e muta di Foreman. Per ottenere una vittoria impossibile, si offre alla forza mostruosa, lascia che la roccia consumi se stessa nella sua propria cecità, rischia deliberatamente l’annientamento. Poi, avendo visto in faccia la morte, il Piccolo Sarto la gioca d’astuzia: improvvisi, una serie di destri alla testa abbattono il Gigante stremato…

Questo è il nucleo dell’avventura eroica, il “fatto” che merita d’essere narrato e rinarrato. Ma Muhammad Alì non sarebbe stato l’uomo grande che è stato, se il suo tenero coraggio non si fosse nutrito d’un sogno: dar vita a un mito capace di restituire splendore e gloria scintillante a uomini e donne umiliati da ferri, ceppi e catene.

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