Un articolo pubblicato sul club de La Lettura si occupa di un patrimonio museale di cui si parla poco generalmente: quello aziendale. Al suo interno si citano tra l’altro la Franco Tosi di Legnano e soprattutto il museo dell’Alfa Romeo di Arese, chiuso dal 2011.
C’è un pezzo di storia che l’Italia rischia di farsi rubare. È la storia gloriosa della sua industria. Delle donne e degli uomini che hanno scolpito il nome del nostro Paese nell’acciaio delle turbine, nel design di una poltrona, nel rombo di un motore. Ma in un’Italia che lascia cadere a pezzi Pompei, a chi può interessare? E poi c’è la crisi. Che complica le cose. Negli anni Ottanta le aziende hanno cominciato a investire per mettere al sicuro il proprio passato. Ora molte collezioni private non hanno più i fondi per restare aperte al pubblico.
Prendiamo il museo Richard Ginori a Sesto Fiorentino, dieci chilometri da Firenze. Al suo interno 300 anni di pezzi straordinari. Il momento d’oro del fondatore, Carlo Ginori, nel ‘700 con le porcellane dal gusto del tardo barocco fiorentino. Poi i pezzi degli anni ’20 quando Gio Ponti era il direttore artistico. L’azienda è fallita e a giugno dell’anno scorso è stata acquisita dal marchio Gucci. Per il momento il museo è aperto grazie al curatore fallimentare. Fino a quando? Anche nell’industria meccanica ci sono marchi storici come quello della Franco Tosi, di Legnano, alle porte di Milano, che lottano per sopravvivere. In queste condizioni un pezzo straordinario della storia del Paese rischia di andare perso.
Ci sono poi situazioni che restano sospese. Emblematico il caso del museo Alfa Romeo di Arese, a due passi da Milano. Chiuso dal febbraio 2011 (ma qui la crisi non c’entra nulla). Le 130 vetture che si vedevano all’interno sono solo una minima parte del patrimonio inestimabile del museo. Il resto si trova nel garage-caveau sotterraneo. Qui sono custodite le auto che fecero dire a Henry Ford: «Quando passa un’Alfa Romeo mi tolgo il cappello».
A gennaio 2011 la Soprintendenza ha posto il vincolo sia sulle auto che sullo stabile del centro direzionale voluto dal manager che negli anni ‘60 ha fatto la storia dell’Alfa, Giuseppe Luraghi. Motivazione: «La straordinaria importanza della raccolta di automobili del museo e del suo archivio storico» oltre al legame inscindibile con il sito.
Un mese dopo Fiat ha chiuso l’esposizione. Da allora non è più visitabile. In teoria tutti vorrebbero riaprire le porte del museo. «Sono sei anni che sto cercando di rilanciare il museo di Arese — ha attaccato nei giorni scorsi da Ginevra l’amministratore delegato di Fiat, Sergio Marchionne —. Ma sono stato bloccato. Non possiamo nemmeno entrare o utilizzare il nostro museo perché è considerato un sito protetto: non riusciamo a sbloccare l’investimento». E ancora: «Ho visto i ministri vecchi, vedrò probabilmente anche i nuovi. Ho parlato anche con il presidente della Regione Lombardia Maroni. Ma nulla di fatto».
Fiat chiede che venga tolto il vincolo della Soprintendenza, da una parte. Dall’altra la possibilità di vendere otto auto della collezione. Ecco perché la casa torinese ha fatto un ricorso su cui il Tar potrebbe pronunciarsi a metà marzo. Dal canto suo la Soprintendenza non commenta. Fa solo sapere di avere approvato il progetto di rilancio del museo presentato da Fiat. E la Lombardia, che fino a ieri si era spesa nel ruolo di facilitatore della trattativa? Ora fa un passo indietro. Da ambienti vicini alla presidenza si riesce a sapere che la Regione aveva valutato la possibilità di acquisire le auto che Fiat vuole vendere. Ma non ha intenzione di premere perché venga tolto il vincolo, soprattutto ora che il piano Fiat è stato approvato dalla Soprintendenza stessa. Morale: la pronuncia del Tar sarà determinante per il futuro del museo di Arese.