Tra le cose per cui l’Italia è famosa, c’è sicuramente la cucina. Talvolta sappiamo essere così puntigliosi da mettere in difficoltà le persone straniere che, quando si ritrovano a tavola con degli italiani, rischiano ogni volta di fare qualcosa che farà andare su tutte le furie l’intransigente di turno.

C’è però un ambiente in cui, a quanto pare, non siamo i primi della classe quando si parla di cibo: l’ospedale. Chiunque abbia avuto l’esperienza di un ricovero in Italia, o abbia assistito al pranzo di un parente o un amico ricoverato, avrà fatto caso ai pasti offerti. Spesso si tratta di piatti estremamente semplici, poco saporiti, poco vari e purtroppo di qualità generalmente scarsa.

C’è chi si lamenta, chi subisce senza troppo infierire, ma più o meno tutti accettiamo il fatto che quel tipo di alimentazione (al di là della qualità) sia in qualche modo collegata alla degenza e giustificata da questioni mediche.

Ecco perché colpisce l’esperienza raccontata qualche mese fa sul Guardian dalla scrittrice italiana Viola Di Grado: “Sono stata ricoverata in un ospedale di Londra per un’infezione al petto – scrive –. Con mia grande sorpresa, un membro del personale molto gentile veniva ogni giorno a mostrarmi il menu e a farmi scegliere tra diverse opzioni: tutti piatti complessi e gustosi che attingevano a diverse tradizioni culinarie. Mentre mi rimpinzavo di squisiti tikka masala e di deliziosi piatti asiatici in agrodolce, ho iniziato a chiedermi perché, nel mio Paese, l’esperienza per me (e per tutti gli altri) fosse stata così diversa”.

Di Grado riflette poi sulla possibile origine di questa usanza, ipotizzando che possa situarsi nella tradizione religiosa: “In un’Italia profondamente cattolica ma sempre gioiosa, perennemente in bilico tra la rigida morale cristiana e la voglia mediterranea di assaporare la vita, al momento dell’ingresso in ospedale il malato è tenuto a purificarsi immediatamente da qualsiasi brama di piaceri mondani. La carne gommosa e le carote bollite non condite vengono offerte ai degenti come una mascherata opportunità di espiazione. Il paziente mastica stoicamente questi cibi orribili come se li offrisse per i suoi peccati. È il tradizionale atto del fioretto che ci insegnano da bambini: prometti al santo di tua scelta che se esaudirà il tuo desiderio, sacrificherai qualcosa che ti piace davvero. […] L’assunto implicito in questa narrazione è che il piacere è peccaminoso, e quindi rinunciarvi renderà più probabile la guarigione delle persone malate”.

È forse arrivato il tempo di interrompere questa severa tradizione, e offrire ai malati qualcosa di più piacevole durante le loro degenze. Del resto, la gioia che può dare un buon pasto può essere un importante aiuto nel processo di guarigione.

(Immagine da freepik)

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