Il panorama dell’informazione è oggi piuttosto complicato. L’era digitale, se da un lato offre un accesso senza precedenti alla conoscenza, dall’altro ha aperto le porte a un fiume di disinformazione e teorie cospirative.

Come scrive Mattia Ferraresi nel libro I demoni della mente, gli esseri umani sono predisposti a cercare schemi e a dare un senso al mondo che li circonda. Questo impulso intrinseco può portare a incredibili scoperte scientifiche ed espressioni artistiche, ma ci porta anche a vedere connessioni dove non esistono. Questa tendenza, che Ferraresi definisce come una sorta di “epistemologia della cospirazione”, è particolarmente potente in un mondo saturo di informazioni. Desideriamo spiegazioni per eventi complessi e le teorie della cospirazione, con la loro seducente semplicità e la promessa di verità nascoste, offrono una narrazione apparentemente soddisfacente.

Questa predisposizione è spesso amplificata da pratiche mediatiche che alimentano la nostra fame di ciò che è invisibile. Lo stile giornalistico del “retroscena”, molto diffuso in Italia, si basa sulla rivelazione di giochi di potere, spesso basati su “soffiate” da parte di fonti anonime. Se da un lato questo approccio può svelare casi di abuso e corruzione, dall’altro può coltivare una cultura del sospetto in cui ogni evento viene visto attraverso una lente di sfiducia.

L’ascesa dei social media ha ulteriormente complicato questo panorama. Sebbene però gli algoritmi possano influenzare le informazioni che incontriamo quando siamo sulle piattaforme, una ricerca recentemente pubblicata su Nature suggerisce che le scelte individuali e i pregiudizi individuali sono elementi molto più potenti rispetto ai contenuti che consumiamo online. L’esposizione a contenuti falsi o dannosi non è così diffusa come si pensa comunemente, e in genere si concentra tra coloro che li cercano attivamente, confermando la loro visione del mondo.

Ad esempio, il movimento “no vax”, che esiste da prima dell’avvento di internet, ha trovato terreno fertile nelle comunità online. Nonostante la disponibilità di informazioni scientifiche affidabili, questi gruppi spesso privilegiano narrazioni che rafforzano la loro sfiducia pregressa nelle istituzioni mediche. Ciò evidenzia la necessità cruciale di affrontare le cause alla radice di tali convinzioni, affrontando i pregiudizi della società e promuovendo le capacità di pensiero critico e l’alfabetizzazione mediatica piuttosto che concentrarsi esclusivamente sul ruolo degli algoritmi.

I teorici della cospirazione spesso utilizzano tattiche manipolative come il “data dumping” e il “webbing” per sostenere le loro affermazioni. Il data dumping sommerge il pubblico con un fiume di statistiche, studi e nomi, spesso travisati o estrapolati dal contesto, per creare una facciata di competenza. Il webbing, invece, intreccia teorie cospirative apparentemente disparate, creando una narrazione interconnessa che appare più plausibile delle sue singole parti. Riconoscere queste strategie è fondamentale per evitare di essere travolti da una retorica carica di emozioni e da affermazioni prive di fondamento.

La lotta alla disinformazione richiede un approccio su più fronti. Una maggiore trasparenza da parte delle piattaforme dei social media e una più stretta collaborazione con i ricercatori sono essenziali per capire come si diffondono queste narrazioni e per sviluppare contromisure efficaci. Concedere ai ricercatori l’accesso ai dati e consentire esperimenti controllati per esaminare l’impatto delle caratteristiche della piattaforma può mettere in luce i meccanismi di propagazione della disinformazione.

In definitiva, la costruzione di una società più resiliente dipende dalla capacità degli individui di discernere il vero dal falso. A tal fine è necessario dotare gli individui degli strumenti per valutare criticamente le informazioni, indipendentemente dalla loro fonte.

(Foto di Ahmed Zayan su Unsplash)

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