L’evoluzione delle neuroscienze, e dei modi di intervenire sul cervello per curare o alleviare certe patologie, portano con sé una riflessione sull’impatto che tali pratiche possono avere sull’io, o meglio sulla nostra agency (agentività). Ne parla sulla Domenica del Sole 24 Ore Adina Roskies, filosofa ed esperta di neuroetica.
Gli ultimi decenni hanno visto lo sviluppo di molti nuovi modi di intervenire sul cervello. Di recente, scienziati e medici hanno cominciato a modulare direttamente le funzioni cerebrali grazie a stimolazioni elettriche focali. Alcuni nuovi strumenti si mostrano promettenti per il trattamento di malattie farmaco-resistenti. Tecniche come la stimolazione cerebrale profonda (DBS), con cui elettrodi impiantati forniscono una stimolazione elettrica a zone-bersaglio nelle zone profonde del cervello, stanno dando buoni risultati nell’alleviare i sintomi di alcune malattie invalidanti e altrimenti intrattabili, quali il Parkinson o il disturbo ossessivo compulsivo. Come per qualsiasi intervento clinico, le potenzialità della DBS devono essere valutate in base ai rischi e ai costi. Una delle preoccupazioni è che le neurotecnologie abbiano un impatto su ciò che possiamo chiamare intuitivamente la nostra agency, o agentività.
Filosofi e scienziati usano spesso il concetto di agentività senza darne una chiara definizione esplicita. I filosofi a volte pensano all’agentività come a qualcosa che un individuo ha o di cui è privo, cioè come un termine binario. Altri studiosi lo considerano una quantità scalare, qualcosa di cui un individuo può essere più o meno provvisto. Io suggerisco che l’agentività sia meglio concettualizzata nei termini di una costellazione di capacità che la piena agency presuppone. Questa visione «capacitaria» dell’agentività è ben coerente con le opinioni predominanti sul libero arbitrio e sulla responsabilità morale e giuridica. In breve, l’idea è che un agente per essere tale deve possedere un insieme di capacità identiche o strettamente correlate alle capacità che rendono possibile l’azione volontaria, l’autocontrollo e la responsabilità morale. L’agentività è quindi sfaccettata; pensarla come una pura grandezza scalare implica una semplificazione che minaccia di ostacolare i nostri migliori sforzi per stabilire quali scelte adottare in situazioni dilemmatiche e per comprendere in modo più ampio le basi teoriche delle nostre deliberazioni.
Propongo pertanto di rappresentare l’agentività in uno spazio multidimensionale di cui dobbiamo ancora determinare gli assi. Con l’avvento di metodi per la raccolta e l’analisi dei big data, come valutazioni online e metodi di apprendimento automatico, potremmo avere anche un nuovo modo di integrare e testare le nostre teorie filosofiche. Un modo, che stiamo perseguendo, consiste nel presentare una lista dettagliata dei possibili aspetti dell’agentività a partire sia dall’intuizione sia dall’osservazione clinica. Ad esempio, i primi candidati quali dimensioni iniziali sono il controllo motorio, l’inibizione degli impulsi, l’attenzione, l’identificazione di sé, e così via.
Presentando domande che analizzano queste diverse dimensioni, possiamo stabilire dove si collocano in questo spazio virtuale le persone sane e le persone con disturbi clinici. Potremmo anche provare a imporre una metrica su quegli assi che tenga conto della variazione su una molteplicità di dimensioni. Se possiamo descrivere un tale spazio e una metrica relativa, potremmo identificare singoli punti che descrivono l’estensione delle capacità agentive di un individuo, ovvero un modo per visualizzare la sua agency. Una prova di questo test è valutare se le persone con diverse condizioni cliniche deviano in modi prevedibili rispetto alla popolazione generale.
Una volta messo a punto uno strumento di valutazione, possiamo usarlo per vedere come cambia il profilo dell’agente quando viene sottoposto a interventi di neurostimolazione. Se, per esempio, il trattamento con DBS è efficace, una persona che riceve la cura su alcune dimensioni avrà valori di agentività superiori ai valori di malati non trattati. Tuttavia, gli effetti collaterali indesiderati (almeno quelli che influiscono sull’agentività) possono spesso provocare una riduzione di valori su altri assi. Confrontare i profili delle persone mentre sono sotto l’effetto della DBS e quando non lo sono fornirebbe un modo oggettivo di valutare non solo il successo dell’intervento terapeutico, ma anche l’impatto degli effetti collaterali.
Sebbene questo tipo di strumento possa essere utile nella pratica clinica per valutare le decisioni circa il trattamento, un’avvertenza rilevante è che le misurazioni oggettive delle proprietà legate all’agency quasi certamente non coincideranno con le dimensioni valutative che dovrebbero governare le decisioni di trattamento. Gran parte della letteratura biomedica sull’autonomia e sull’autenticità richiama infatti l’attenzione sui differenti valori che le persone possono coltivare e sull’importanza della propria auto-comprensione in tema di salute mentale. Una volta delineato uno spazio di agentività, è probabile che si scopra che alcune persone considerano certe dimensioni più importanti di altre. Si pensi al paziente olandese descritto da Albert Leentjens, il quale ha dovuto decidere se vivere il resto dei suoi giorni costretto a letto in una casa di cura a causa della sua impossibilità acquisita di movimento o invece scegliere il ricovero volontario in un’istituzione psichiatrica a causa della mania ingestibile provocata dalla DBS, che nello stesso tempo ha alleviato i suoi problemi motori.
L’articolo continua sulla Domenica del Sole 24 Ore.
(Foto di jesse orrico su Unsplash)