Da qualche tempo la testata CheFare ha avviato una riflessione sulla “neurosostenibilità” del lavoro culturale.
Sostenibilità economica ed esistenziale
Delle difficoltà economiche che attraversano continuamente molti “lavoratori della conoscenza” si parla spesso. Si tratta in molti casi di persone che lavorano con partita Iva, che devono accettare molti lavori per mettere assieme introiti sufficienti a pagare affitto e bollette, che difficilmente possono fare progetti di lungo periodo, e che sono sempre in competizione tra loro perché in troppi rispetto alla domanda (anche perché in Italia questa si concentra principalmente a Roma e Milano). Ivan Carozzi ne fa un triste (e parziale) elenco: «Giornalisti della carta stampata e della rete, creativi a vario titolo, social media manager, content manager, insegnanti a contratto nella scuola, uffici stampa, autori per la tv o la radio, copywriter, grafici, ricercatori universitari, editor, web designer, illustratori, cacciatori di bandi europei per il finanziamento di progetti d’interesse socioculturale, videomaker, montatori, fotografi, galleristi indipendenti, curatori d’arte contemporanea, designer della comunicazione. Più in generale, lavoratori della conoscenza». Oltre alla questione economica c’è quella esistenziale. Una vita professionale che richiede sempre più tempo e risorse è incompatibile con la cura e la pazienza necessarie a costruire e curare relazioni, affetti, amicizie. Fino a una certa età si gestisce il tutto con una certa tranquillità, ma col tempo è sempre più difficile.
Neurosostenibilità
Carozzi introduce una terza questione, ossia appunto la sostenibilità neurologica di questo stile di vita, inevitabilmente collegato ai dispositivi tecnologici ai quali siamo sempre più legati (il che vale a maggior ragione per chi li usa anche come strumenti di lavoro). «È semplice, quasi matematico: la precarietà e l’autoimprenditorialità costringono a lavorare il più possibile, a imbarcare più lavori e progetti contemporaneamente, a sovraccaricare il corpo e la mente di obiettivi e scadenze, a impegnare il cervello nella soluzione di più compiti, a dotarsi di più strumenti, ad aggiornarsi infinitamente, a vivere insomma in uno stato di ansia e allerta dentro un mercato del lavoro culturale e cognitivo che somiglia a una morbida e paludosa arena darwiniana; ma intanto il corpo invecchia. […] La stanchezza – il sociologo Byung-Chul Han parla di società della stanchezza – è ciò che accomuna una variegata classe di lavoratori, forse più dei gusti o dei consumi culturali. Prevalgono la fatica e lo stress. Lo sappiamo bene, perché ce lo dice l’esperienza diretta e lo conferma un’intera letteratura dell’iperconnessione. Tutto questo ha un costo per il cervello. All’epoca della rivoluzione industriale, la classe operaia, cioè gli uomini e le donne che dalle zone rurali si trasferirono nelle grandi città dove si concentravano le fabbriche, si confrontò con un boom delle patologie polmonari e muscoscheletriche. Oggi il tema, specie tra gli enta e gli anta, sembra essere un altro. È la questione, infatti, di ciò che vorrei chiamare “neurosostenibilità” del lavoro culturale e cognitivo. Dunque, che fare?». Da quella riflessione è nata una serie di articoli, che cercano di affrontare il problema ponendo una serie di domande a professioniste e professionisti del lavoro culturale, per capire dalla loro esperienza se esiste un problema di neurosostenibilità della loro professione. Qui si possono trovare le diverse interviste, che presentano diversi spunti interessanti.
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