Il nuovo lavoro di Ken Loach, Io, Daniel Blake, è un film di denuncia, che trova la sua ragion d’essere nella critica al sistema di welfare inglese, ancor prima che nella storia specifica e nella caratterizzazione narrativa dei vari personaggi. E la sua forza, infatti, lungi dal risiedere nell’esperienza estetica della visione del film, sta soprattutto nella possibilità per ogni spettatore di vedere, nelle vicissitudini di Daniel Blake, un po’ della propria storia, cucendo su di sé quell’Io nel titolo. Ed è proprio per questa possibilità di immedesimazione che, lungi dal volerci avventurare in una recensione, sentiamo che ha senso parlare di questo film (per chi non lo avesse visto: eviteremo di scendere nei dettagli della trama, quindi niente spoiler).

Loach mostra il protagonista alle prese con una macchina burocratica dipinta come fredda, impenetrabile, paradossale e spietata. Quest’ultimo aggettivo va inteso nel senso più vicino alla sua etimologia, semplicemente “privo di pietà”, dunque spogliato di quell’aura di pathos alla quale si è soliti associarlo. Non è la prima volta che Loach (che sul cinema “di denuncia” ha costruito una carriera) si misura col tema, come ha fatto notare Goffredo Fofi su Internazionale. Dopo la prova del 1994 dal titolo Ladybird, Ladybird, la presenza ingombrante del sistema di welfare appare qui “aggiornata” da una componente fondamentale, ossia l’evoluzione tecnologica. Questa, lungi dall’aprire possibilità nuove per l’utente (soprattutto se non avvezzo all’uso di computer, come il 59enne Daniel Blake), diventa un’ulteriore espansione del labirinto al quale spesso si usano paragonare gli intrighi burocratici che chiunque, almeno una volta, si è trovato ad affrontare.

Il rischio di ritrovarsi in un “vicolo cieco” procedurale è altissimo, soprattutto quando sono più uffici o enti a dovere in qualche modo relazionarsi. L’incolpevole Daniel Blake, reduce da infarto, si trova intrappolato tra il medico che gli intima di stare a riposo, l’ufficio invalidità che non gli concede tale diritto, e quello per i sussidi di disoccupazione che lo obbliga a mostrarsi “proattivo” nella ricerca di lavoro. Un corto circuito nel quale alla fine il cittadino resta stritolato, e non gli basta nemmeno il conforto dei rapporti di solidarietà che inevitabilmente si instaurano tra persone vicine di casa, ma anche di “cartella”. Se può da un lato sembrare generica e consolatoria la denuncia, immaginiamo che arrivati a questo punto a chiunque sia venuto in mente almeno un episodio in cui si è trovato in una situazione simile, e già questo basta a dare importanza all’operazione di Loach.

Annamaria Testa, sempre su Internazionale, arriva a paragonare l’esperienza di Blake a quella che, sempre più spesso, ci si trova ad affrontare quando si ha a che fare con un call center: risposte insoddisfacenti, senso di impotenza (spesso anche da parte dell’operatore, che si mostra intenzionato a risolvere i problemi dell’utente, ma date le sue limitate prerogative non può aiutarlo). «Siamo Daniel Blake quando ci scontriamo con un modulo illeggibile perché scritto in corpo minuscolo – scrive Testa –. Incomprensibile perché redatto in burocratese stretto. Incompilabile perché i campi non hanno spazio sufficiente. Siamo Daniel Blake quando passiamo decine di minuti ascoltando stucchevoli musichette dopo essere stati avvertiti che “la telefonata è a pagamento e verrà addebitata secondo le tariffe applicate dal suo gestore”. Siamo Daniel Blake quando cerchiamo di districarci tra “prema uno, prema due, prema tre, prema quattro”, e scopriamo che la magica opzione “per parlare con un operatore prema cinque” non è prevista. Siamo Daniel Blake quando “tutti i nostri operatori sono occupati. La preghiamo di attendere”. E parte un quarto d’ora di informazione pubblicitaria. E, naturalmente, siamo Daniel Blake tutte le volte che finalmente riusciamo a parlarci, con un operatore, senza però ottenere una risposta comprensibile, sensata e utile. E le volte che, tentando la perversa roulette del call center, ripetiamo la trafila, riaccettiamo di pagare la telefonata, riascoltiamo la musichetta, e finalmente, da un diverso operatore, riceviamo una risposta del tutto differente, ma altrettanto incomprensibile, insensata o inutile». Pragmaticamente, Testa arriva a proporre al lettore una piccola guida per affrontare le chiamate ai call center. Forse è l’atteggiamento giusto, adattarsi innanzitutto alle situazioni invece di innervosirsi, agitarsi, inveire contro qualcosa o qualcuno addestrato ad assorbire i colpi senza riportare danni.

Forse avrebbero fatto comodo a Daniel Blake i consigli di Psychology Today: «Preparatevi prima, siate gentili, controllate le vostre emozioni, personalizzate lo scambio chiamando per nome la persona con cui parlate per ispirarle empatia, ripetete più volte la vostra richiesta usando le medesime parole». A suo modo Blake fa suoi questi suggerimenti, ma l’empatia non basta di fronte all’inflessibilità delle regole. Se poi queste sono assurde, anche essere gentili e controllare le emozioni diventa difficile.

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