Dopo 15 anni di dibattito, il 4 marzo l’organismo internazionale che stabilisce gli standard per definire le ere geologiche ha deciso che l’Antropocene non diventerà un’epoca ufficiale nella cronologia geologica della Terra.
La proposta, spiega un articolo su Nature, avrebbe sancito la fine dell’attuale epoca, l’Olocene, in vigore dalla fine dell’ultima era glaciale avvenuta 11.700 anni fa. La proposta suggeriva che l’Antropocene fosse iniziato nel 1952, quando il plutonio proveniente da test su bombe all’idrogeno fu trovato nei sedimenti del lago Crawford, vicino a Toronto, in Canada.
Ma, come hanno osservato diversi scienziati consultati da Nature, a prescindere dalla sua adozione ufficiale, l’idea dell’Antropocene è ormai saldamente radicata nella ricerca. E, aggiungiamo noi, è anche un utile strumento (pur con tutti i suoi limiti e i suoi aspetti controversi) di divulgazione sull’impatto dell’azione umana sul pianeta.
Alcuni osservano come il termine abbia aiutato a superare il dualismo uomo-natura, ossia l’idea che l’umanità sia in qualche modo separata dal resto della natura.
Inoltre, è un termine che appartiene a ricercatori e ricercatrici di discipline molto diverse tra loro: alla filosofia come alla critica letteraria, alle arti, le discipline umanistiche e le scienze in generale. C’è chi arriva perfino a sostenere che sia più utile nel suo utilizzo più “pop”, di quanto non sarebbe stato come termine strettamente stratigrafico. L’Antropocene ha quindi un importante impatto sul pensiero multidisciplinare, ribadendo l’importanza di comprendere «che il ruolo delle persone sul nostro pianeta richiede molti modi diversi di conoscere e molte discipline diverse», ha detto la paleologa Jacquelyn Gill.
L’idea dell’Antropocene è particolarmente utile per chiarire che l’uomo sta modellando il pianeta da migliaia di anni, tenendo conto che non tutti i cambiamenti sono stati negativi, dice Gill. Circa l’80% della biodiversità è attualmente gestita nelle terre indigene. Questo dovrebbe dirci che il problema per l’ambiente non è la presenza “delle persone” in generale. Piuttosto, a dover cambiare è il modo in cui molte culture dominanti si relazionano con il mondo naturale.
In un contesto in cui la minaccia del cambiamento climatico domina i dibattiti sull’ambiente, il termine Antropocene può contribuire ad ampliare la discussione. Può infatti aiutare a capire che il cambiamento climatico non è una cosa che avviene di per sé, nel vuoto, ma è ciò che noi stiamo facendo all’ambiente, devastando gli habitat, estraendo risorse, ecc.
Nel dibattito di questi anni si sono spesso sottolineati i difetti del termine. Per esempio, parlare di “umanità” in generale tralascia il fatto che sono le già citate culture dominanti ad avere gli impatti maggiori, mentre le comunità indigene spesso ci insegnano come avere un rapporto diverso con la “natura non umana”, come andrebbe più correttamente chiamata, in grado di mettere assieme un intervento sull’ambiente con il rispetto e la preservazione dei suoi cicli di vita.
Purtroppo però non c’è un altro termine disponibile che catturi gli impatti globali sul pianeta. Certo, ha detto Yadvinder Malhi, ricercatore che si occupa di biodiversità all’università di Oxford, «c’è un problema nel non avere una definizione formale se le persone lo usano in termini diversi, in modi diversi». Quella bocciata il 4 marzo è infatti solo una delle tante proposte di definizione dell’Antropocene. Con questa parola alcuni ricercatori si riferiscono a processi iniziati alcuni secoli fa, altri addirittura 10 mila anni fa. Ben prima dunque del 1952.
(Foto di Greg Rosenke su Unsplash)
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