nodoDopo altre centinaia di morti nel mar Mediterraneo, l’Europa sta valutando di investire nuove risorse per il pattugliamento delle acque. Era già successo pochi mesi fa, quando altri barconi erano andati alla deriva al largo di Lampedusa. A inizio marzo erano stati annunciati da parte della Commissione europea il dibattito sull’immigrazione e la discussione di nuove missioni in mare diverse da Triton. Non se n’è saputo più nulla e nel frattempo, com’era ovvio, le imbarcazioni della disperazione (ipocrita chiamarle “della speranza”) non sono rimaste ormeggiate sulle coste della Libia ad aspettare. Gli sbarchi sono continuati, con un livello di drammaticità decisamente crescente.

Il fatto, l’abbiamo già spiegato, è che tra Mare Nostrum e Triton c’è una differenza sostanziale, in quanto la prima era una missione umanitaria (guidata dall’Italia), la seconda si limita al pattugliamento delle coste (gestita dall’agenzia europea Frontex). La prima disponeva di mezzi per intercettare le imbarcazioni e al contempo prestare i soccorsi; Triton si limita alla prima delle due cose, dovendo poi aspettare che i soccorsi arrivino da un porto italiano. Possono passare ore dalla segnalazione dell’emergenza all’intervento, e questo lasso di tempo è fatale per molte persone. C’è chi viene ripescato vivo e poi muore comunque di ipotermia, proprio perché le cure vengono prestate con troppo ritardo. Tutte dinamiche che si conoscevano benissimo nel momento in cui il governo italiano e l’Unione europea hanno coordinato il passaggio da una missione all’altra.

Si sapeva benissimo che attraversare il lembo di mare che separa l’Africa dall’Europa sarebbe diventato molto più pericoloso, eppure non ci si è fermati davanti a questa evidenza: «Secondo i dati dell’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (Iom), nei primi quattro mesi del 2015 novecento persone sono morte cercando di attraversare il canale di Sicilia. Nello stesso periodo del 2014 i morti furono 96 (anche togliendo dal conto i 400 migranti morti domenica scorsa, che non sono stati ancora confermati, nel 2015 il numero dei morti è aumentato di cinque volte)». Nel virgolettato, tratto dal Post, si parla prudentemente di 400 morti, ma secondo le testimonianze dell’ultimo grande naufragio la cifra potrebbe aggirarsi tra i 500 e i 950.

La domanda a cui qualcuno dovrebbe rispondere è: ci voleva questa ennesima strage per capire che è tempo di elaborare nuove politiche sulla gestione dei soccorsi? Anche Mare Nostrum nasceva a seguito di un evento luttuoso, definito dal sindaco di Lampedusa, Giusi Nicolini, «la più grande tragedia che Lampedusa ricordi». Allora furono recuperati 127 cadaveri e 155 persone vive. Purtroppo (se le cifre saranno confermate), Lampedusa (e l’Europa intera) ha dovuto assistere a un’altra tragedia, che potrebbe rivelarsi ancora più grande.

C’è ovviamente chi non si ferma nemmeno davanti ai morti e usa la retorica più bassa per descrivere la situazione come un’invasione da fermare. Limes ha pubblicato una mappa che illustra da dove arrivano i migranti in Italia (molti dei quali non intenzionati a stabilirsi nel nostro Paese), in cui è evidente che la maggior parte degli ingressi avviene via terra. Di questi, il gruppo più numeroso è quello dei rumeni, che entrano liberamente nel nostro Paese, essendo la Romania membro dell’Unione europea dal 2007. In molti arrivano normalmente con un aereo in Italia per cercare un lavoro, per raggiungere la propria famiglia, o per continuare verso un’altra meta.

Se il problema sono i “clandestini”, allora ce la si sta prendendo con una quota minoritaria (e più debole) degli immigrati. Per quale motivo? La clandestinità è data dal fatto che il Paese d’origine del migrante non gli rilascia il visto per partire, quindi questi è costretto a viaggiare senza documenti validi. Dovrebbe comunque restare dov’è, andando incontro alla violenza e alla morte? È chiaro che l’alternativa della fuga è comunque preferibile per chi non ha più nulla da perdere. Attraversare il deserto, le carceri libiche, poi il viaggio in mare. Quello a cui assistiamo dalla nostra sponda è solo l’epilogo di un viaggio iniziato molto prima, che miete vittime lungo il cammino e strema i sopravvissuti.

La retorica del “fermare le navi prima che partano” è ingannevole (fermarle come, poi? Bombardando? Facendo accordi con la Libia che ha due governi che non si riconoscono reciprocamente?): si sposta il problema di qualche miglio marino, inducendo gli italiani a pensare che questo voglia dire risalire all’origine del problema. Non è così, perché esso ha radici molto più profonde, che richiederebbero reali politiche d’intervento diplomatico per indurre gli Stati africani a concedere libertà di movimento ai propri cittadini. Creare visti temporanei per la ricerca di lavoro validi per tutta l’Europa, indipendentemente dal Paese d’origine. Si parla tanto di libero mercato: rendiamolo tale anche per le persone, chiunque esse siano. Altrimenti, tanto vale prendersela col trattato di Schengen, uscirne, isolarci, cacciare il “nemico”. Il mondo, però, sta andando da un’altra parte.