A breve ricorreranno tre mesi dal primo caso di coronavirus in Italia, individuato a Codogno (Lodi) il 20 febbraio. Come ricostruisce un lungo e approfondito articolo del Post, incentrato sulla Lombardia, il 22 gennaio le autorità sanitarie locali di tutta Italia avevano ricevuto indicazioni dal Ministero della salute sui protocolli anti-epidemia da adottare. Un mese forse è poco per organizzarsi, ma comunque non giustifica la serie di errori fatti nelle settimane successive. Il seme del disastro era già nelle premesse: «Il rigido protocollo del 22 gennaio, che imponeva di testare tutte le polmoniti sospette, era stato sostituito il 27 gennaio da un altro meno severo». È un esempio delle tante cose che sarebbero potute andare diversamente, se solo si fosse presa più seriamente la minaccia, a tutti i livelli.

Un disastro che arriva da lontano

I problemi cominciano molto prima di febbraio: «I piani pandemici, non aggiornati da anni, non erano di aiuto: non solo erano difficili da applicare a una struttura sanitaria regionale nel tempo cambiata, ma contenevano appena poche righe sull’importanza di rifornirsi di dispositivi di protezione, che si sarebbero rivelati poi uno degli strumenti più efficaci nella gestione della pandemia e anche una delle questioni più problematiche. Anche volendo seguire quelle indicazioni, comunque, senza accordi prestabiliti con i fornitori a quel punto le mascherine erano già introvabili. Alla fine di febbraio un tardivo tentativo da parte della Regione di acquistarne quattro milioni si risolse in nulla, quando ci si accorse che il fornitore non era in grado di rispettare la consegna». C’è poi il problema dei test. Perché non se ne sono fatti di più, da subito? Semplice: perché mancavano i tamponi e i reagenti, e i laboratori autorizzati a processarli non riuscivano a stare dietro alle richieste. Ma perché non si è messo da subito in piedi un modello adeguato alla situazione? «La Lombardia ha una popolazione più che doppia del Veneto, ha quattro volte i contagi accertati (pur avendo testato soprattutto le persone in condizioni gravi) ed esattamente dieci volte i decessi. Ciononostante ad aprile la Lombardia ha processato in media circa 8.520 tamponi al giorno, il Veneto circa 7.880». Da allora la situazione è un po’ migliorata, si fanno più tamponi di prima, ma i problemi strutturali non sono stati risolti. Il governo a fine aprile ha detto «di aver già mandato alle regioni 2,7 milioni di tamponi, e che soltanto 2 milioni erano stati usati. Il piano, ha aggiunto il governo, è di mandarne altri 5 milioni nei prossimi due mesi. C’è però un problema: queste forniture sono limitate ai soli tamponi, cioè i “bastoncini” con cui si preleva il campione di saliva ai pazienti, e non comprendono i reagenti chimici necessari per elaborare i tamponi e ottenere il responso sull’eventuale positività al coronavirus». Ogni regione si sta muovendo diversamente (anche) sul modo in cui processare i tamponi. I laboratori hanno macchinari diversi, e ognuno ha i suoi reagenti. C’è chi, come il Veneto, si è organizzato per produrli da sé, e chi, come la Lombardia, stenta ad assicurarsi un approvvigionamento adeguato. E infatti ancora a fine marzo quest’ultima faceva molti meno tamponi di quelli necessari. Eravamo a oltre un mese dal primo caso, e a due da quando erano stati introdotti i protocolli anti-pandemia.

Questa piccolo, parziale riassunto della prima parte dell’epidemia mette in luce una spaventosa catena di errori e inefficienze. Nel frattempo, al Paese veniva imposta una quarantena generalizzata che non si era mai vista: l’unica misura possibile, in un quadro di incapacità di gestione che ci accompagna anche nella “fase 2”. Ci si affretta a riaprire tutte le attività commerciali e gli spazi pubblici, perché l’economia è in ginocchio e le persone cominciano a mostrare segni (comprensibili) di insofferenza per la quarantena. Ma per riaprire bisogna rispettare (almeno) tre requisiti: fare (molti) più test; isolare le persone infette; tracciare e isolare i contatti delle persone infette. Si sta facendo tutto questo? Si farà? In che misura e con quali modalità?

È il momento di fare domande

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(Foto di Annie Spratt su Unsplash)