Sono tempi da lupi per la finanza mondiale. Il che non deve far pensare che si tratti di momenti difficili, bensì il contrario. I “lupi” sono tornati a fare il proprio gioco sporco proprio come accadeva prima della crisi del 2008. Anzi, forse non se ne sono mai andati. Sia che si guardi al di là dell’Atlantico, sia che si resti dalle nostre parti, sembra che le misure prese per arginare le manovre spericolate che innescarono una delle più gravi crisi finanziarie globali della storia non abbiano funzionato, e che le pene inflitte non abbiano agito da deterrente per scongiurare il ripetersi dei reati. Dal punto di vista italiano, il funzionamento della giustizia rende praticamente nulla la possibilità di finire in carcere, dato che i processi sono molto lunghi e il più delle volte si chiudono con un patteggiamento che non colpisce troppo gli autori del reato e soprattutto non li dissuade dal ripeterlo.
Siamo uno dei Paesi in Europa con il più basso tasso di detenuti che sono andati in carcere per reati finanziari, solo lo 0,4 per cento, mentre la media europea è del 4,1 per cento. Secondo un articolo pubblicato qualche mese fa sul Corriere, le pene inflitte a chi compie reati fiscali sono molto scarse: «Un mese di carcere convertito in 1.500 euro di multa per aggiotaggio a un operatore finanziario dell’Umb, recidivo. Quattro mesi convertiti in 6mila euro a due suoi colleghi di City Bank. Quattro mesi per insider trading al finanziere bresciano Emilio Gnutti. Due anni ma condonati al figlio di Licio Gelli, Raffaello, per bancarotta fraudolenta. Uno in meno di quelli che rischia l’immigrato etiope El Israel, rinviato a giudizio per aver colto un fiore per la fidanzata “spezzando i rami di un oleandro posto a ridosso di una aiuola decorativa con l’aggravante di aver commesso il fatto su un bene esposto per necessità e consuetudine alla pubblica fede”». Il fatto di stare nel nostro Paese pare di per sé un incentivo a commettere reati finanziari.
Anche fuori dai confini i nostri concittadini non danno grande prova di correttezza, come come confermano i dati diffusi dalla polizia cantonale di Bellinzona (Svizzera) ad aprile di quest’anno: «Molte inchieste legate al settore finanziario e parabancario traggono origine da fatti o persone legate all’Italia, una delle nazioni europee con il maggiore tasso di criminalità economica. La fase di grandi cambiamenti per la Svizzera legata agli accordi fiscali, al segreto bancario, al nuovo assetto delle relazioni internazionali finanziarie, crea incertezza nel mondo economico e finanziario e porta taluni operatori a comportamenti illeciti». Non solo in ambito bancario si muovono con agilità i nostri connazionali: «Si constata nel settore fiduciario la presenza di un numero sempre maggiore di attori, quasi sempre stranieri sprovvisti dell’autorizzazione all’esercizio e non affiliati ad un organo di autodisciplina, che commettono tutta una serie di illeciti penali e fiscali. Alla base troviamo nuovamente clienti italiani che vogliono sfuggire alla morsa del fisco del loro paese ma una volta ottenuto un permesso di residenza in Ticino anche da quello ticinese».
Negli Stati Uniti le cose vanno in maniera un po’ diversa, lì lo Stato chiede conti molto salati agli istituti i cui operatori si rendano protagonisti di operazioni illegali. Poi però, grazie ai complicati meccanismi della finanza, a pagare non sono questi ultimi, ma i clienti: «60 miliardi di sanzioni pecuniarie inflitte solo nell’ultimo biennio dal Dipartimento di Giustizia e da altre authority di vigilanza americane – spiega Federico Rampini su Repubblica –. Per reati connessi al mercato dei mutui, ai tassi d’interesse, alle transazioni di Borsa. Sessanta miliardi sembrano un conto da far tremare, di che rieducare un’intera casta di banchieri. Invece no. Il punto debole sta proprio in quella definizione: “sanzioni pecuniarie”. Chi le paga? Non i banchieri ma le banche. Che poi spalmano il costo delle multe nei loro bilanci. A pagare sono gli azionisti, e poi in ultima istanza i clienti attraverso rialzi di commissioni, tariffe, balzelli e prelievi vari. È già successo, per esempio dopo il maxi-scandalo della manipolazione del tasso Libor». Secondo una ricerca citata dal giornalista, poi, chi commette reati lo fa essendo ben conscio dei rischi a cui va incontro: le possibilità di guadagno nel breve periodo sono uno stimolo troppo grande di fronte al deterrente della multa, perché tanto questa sarà pagata da altri. E così i lupi continuano ad agire come se il 2008 fosse stato un anno come un altro. Perché, come fa notare Rampini, «Non si taglia il pelo ai lupi, finché questi pagano le multe coi soldi degli altri».