Normal è un documentario scritto e diretto da Adele Tulli. È costruito come un mosaico di scene da contesti differenti, ognuna incentrata su situazioni, dinamiche, rituali sociali e istituzionali che ruotano attorno ai ruoli di genere. Difficile trovare un arco narrativo, se non quello anagrafico dei protagonisti, come ha spiegato l’autrice alla prima bolognese del film, avvenuta il 10 maggio nelle sale della Cineteca. Interessante la scelta autoriale di tenersi sempre “al di qua” rispetto alla profondità delle situazioni e delle persone mostrate.
La telecamera sembra un occhio invisibile che si accende nel cuore di ciò che viene ripreso, eppure man mano che il film procede ci si rende conto di quanto la sua presenza sia in qualche modo “compresa” nella scena. I personaggi coinvolti sono consapevoli della sua presenza e talvolta arrivano a interagire con la cinepresa, vissuta probabilmente come uno dei tanti obiettivi a cui sono esposti ogni giorno, volontariamente o meno. Nonostante questa presenza manifesta e silenziosa, lo sguardo registico si ferma prima di poter entrare in profondità nei personaggi. I nomi che sentiamo, i luoghi che vediamo, le voci che ascoltiamo sono la manifestazione generica di una situazione che ha valore in quanto esempio, non per le soggettività coinvolte. Delle mamme, dei giovani, delle coppie, dei bambini, delle famiglie, delle amiche: le manifestazioni specifiche, di cui il cinema ha inevitabilmente bisogno per prendere corpo, rappresentano in realtà categorie generiche, situazioni possibili. Questa scelta può creare un certo spaesamento nello spettatore, per l’eterogeneità delle scene.
In una giustapposizione meticolosamente studiata, si alternano episodi che spingono ognuno a trovare la propria soglia di “normalità”, forse anche la sua definizione. La distinzione tra cosa è normale e cosa non lo è sembra interrogare più le nostre categorie mentali che non le situazioni mostrate: non cosa vedo ma cosa ci vedo. Un corso pre-matrimoniale è qualcosa di normale? Probabilmente sì, per molti, ma provate a fare attenzione alla retorica del prete su “chi è normale che metta le corna a chi” nella coppia. È normale che i giocattoli replichino oggetti e attività degli adulti? Probabilmente sì, ma fate caso a quanto rosa e quante foto di bambine sono associati agli oggetti più direttamente domestici. Ogni scena si presta a più livelli di riflessione. Alcune appaiono più immediate (come il padre che fa da coach al figlio/campione in una gara di mini moto), altre sono più sottili, come quando bambini e bambine si divertono a scivolare su un tappeto insaponato sulla spiaggia, mettendo in mostra atteggiamenti e un uso del corpo molto diversi e molto caratterizzati secondo il genere. Bellissime peraltro le riprese di famiglie al mare, tra passatempi annoiati sulla battigia e file di ombrelloni ipersimmetriche. Inquadrature e colori che ricordano da vicino la fotografia di Massimo Vitali, che su questo tipo di umanità ha costruito la propria poetica e il proprio sguardo sul mondo.
Il film cambia registro, ed esce forse dai binari in maniera un po’ spiazzante, nella scena finale di un’unione civile tra due uomini, celebrata nel teatro Comunale di Ferrara. Qui, nell’episodio e nel modo di riprenderlo, si può forse leggere la dichiarazione esplicita della regista su cosa dovrebbe essere normale. Del resto, in un documentario del (e sul) genere, la parte difficile è scegliere cosa non mostrare. Gli spunti e i temi sono talmente interessanti che includere implica necessariamente escludere qualcos’altro. La stessa regista ha spiegato che con il girato raccolto nel corso della ricerca si poteva coprire esattamente il doppio della durata del documentario (70 minuti), il che vuol dire che questo rapporto tra includere ed escludere è esattamente simmetrico. Ecco perché uscendo qualcuno potrebbe dire che mancava nella narrazione un certo aspetto, un certo sotto-tema, un certo punto di vista sul problema. Ma questo fa parte delle scelte dell’autrice, e del resto un documentario non è un saggio, né un’enciclopedia.
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