Il 2 agosto è stato raggiunto un accordo tra i 193 Stati membri dell’Onu per fissare i nuovi Obiettivi di sviluppo sostenibile. La lista, che si compone di 17 punti, stabilisce l’agenda che l’organo internazionale si impegna a rispettare dal 1° gennaio 2016 (data di entrata in vigore dell’accordo) al 2030 (l’adozione ufficiale del documento da parte degli Stati è prevista per il prossimo settembre, durante la 70esima sessione dell’Assemblea generale delle Nazioni unite che si svolgerà a New York).

«Siamo decisi a liberare l’umanità dalla tirannia della povertà e vogliamo guarire e mettere in sicurezza il pianeta», ha dichiarato il segretario generale Ban Ki-Moon. «Siamo determinati a compiere i pesanti e trasformativi passi necessari a mettere il mondo su un percorso sostenibile e resiliente. Mentre ci imbarchiamo in questa impresa collettiva, promettiamo solennemente che nessuno sarà lasciato indietro». La lista dei 17 obiettivi (che sostituisce la precedente, che ne conteneva otto, ai quali ci si riferiva come Obiettivi del millennio) è in effetti piuttosto ambiziosa e comprende praticamente tutte le grandi questioni critiche che riguardano la vita su questo pianeta.

L’attenzione è puntata innanzitutto alla povertà, il primo obiettivo recita infatti «Mettere fine alla povertà in tutte le sue forme dappertutto». Questo era uno degli obiettivi già compresi nella precedente lista, sul quale c’è ancora molto da fare. Come rileva Vita, ancora 1,2 miliardi di persone vivono con meno di 1,25 dollari al giorno e il 20 per cento dei Paesi su cui si sta cercando di intervenire sono «seriamente fuori rotta», secondo la Banca mondiale. D’altro canto, rispetto a quando è stata stilata la prima lista, l’obiettivo è stato raggiunto nel 54 per cento dei Paesi e 700 milioni di persone sono uscite dalla condizione di povertà estrema.

Altro obiettivo in comune con gli Obiettivi del millennio è quello dell’accesso all’istruzione, che qui si arricchisce di alcuni aggettivi che rendono ancora più impegnativa la missione. L’educazione scolastica dovrà infatti essere «di qualità, inclusiva ed equa». Anche in questo caso abbiamo un confronto con quanto fatto finora, che ci dà notizie buone e cattive. Le buone sono che «il tasso di iscrizione a un ciclo di studi primari nei paesi in via di sviluppo ha raggiunto quota 90 per cento nel 2012 – scrive Vita –, un notevole aumento rispetto all’83 per cento del 2000 e all’80 per cento nel 1990». L’altra faccia della medaglia è che «Ci sono ancora 55 milioni di bambini nel mondo che rimangono esclusi da ogni tipo di sistema scolastico, di cui almeno 30 milioni si trovano in Africa subsahariana secondo i dati del 2012. Solo i Paesi in via di sviluppo in Asia centrale e orientale e in Europa hanno raggiunto gli standard prefissati dall’obiettivo, mentre il Medio oriente, il Nord Africa, l’America Latina e i Caraibi sono fermi al 95 per cento. I paesi del sud est asiatico hanno raggiunto la quota del 91 per cento nel 2009 e da allora non ci sono stati miglioramenti». I problemi più gravi riguardano l’Africa subsahariana, dove si trovano ben 17 Stati “fuori rotta”, ossia territori in cui, se non ci sarà un cambiamento radicale, nemmeno nel 2030 si registreranno i miglioramenti sperati.

Altri obiettivi riguardano la salute per tutti a ogni età, altri la lotta alla fame, la sicurezza nell’alimentazione e la promozione di agricoltura sostenibile; accesso all’acqua potabile e a servizi igienici di livelli adeguati per tutti, accesso all’energia, a un lavoro che rispetti la dignità umana e contribuisca alla crescita economica dei Paesi; dal lato dell’ambiente promuovere la manutenzione sostenibile delle foreste, combattere la desertificazione, il degrado della terra e la perdita di biodiversità, combattere il cambiamento climatico, conservare e utilizzare gli oceani e i mari in maniera sostenibile; non meno importanti le questioni culturali – promuovere società giuste, inclusive e pacifiche – e sullo sviluppo industriale. Il vero discrimine che sancirà il successo o meno di questa importante lista è lo spirito di collaborazione tra i Paesi promotori. Il costo dell’operazione non è da poco: si calcola che ci vogliano «tra i 3.000 e i 4.100 miliardi di euro all’anno, l’equivalente del budget federale degli Stati Uniti per il 2016 (pari a 3.800 miliardi dollari). Un problema se si pensa che ogni Stato si impegna a rispettare i 17 obiettivi su base volontaria. Tuttavia, sono previsti “indicatori” che consentiranno di valutare i progressi raggiunti e garantire “un monitoraggio sistematico” in fase di implementazione». Speriamo che l’Italia faccia la propria parte, ne va del futuro di tutti.