Il modello dell’open space intensifica e migliora le comunicazioni tra colleghi di un ufficio? È una questione su cui ci si interroga da tempo, e finora gli studi in merito si basavano su questionari autocompilati dai lavoratori. All’inizio di luglio, però, la prestigiosa rivista scientifica Philosophical Transactions of the Royal Society B ha pubblicato i risultati del primo studio basato su una rilevazione diretta, attraverso strumenti di raccolta dati indossati direttamente dai partecipanti.

L’esito è piuttosto netto: no, l’open space non fa bene alle relazioni tra colleghi. Anzi, con esso i lavoratori tendono a isolarsi dalle altre persone (per esempio con cuffie, o mostrandosi molto indaffarati) e piuttosto si intensificano le comunicazioni indirette attraverso strumenti digitali come le mail o l’instant messaging (IM). Ma vediamo meglio come è stata condotta la ricerca e perché i suoi risultati possono essere considerati attendibili.

Da tempo nella letteratura accademica si scontrano due fronti opposti sul tema. Da un lato c’è l’area sociologica, che insiste sul fatto che una maggiore prossimità induce a una maggiore interazione. Un fatto studiato all’interno dei dormitori dei college americani, dei laboratori di ricerca, negli spazi di co-working, ecc. La rimozione delle pareti, secondo questo impianto, favorisce una maggiore “intelligenza collettiva”, ossia la capacità di risolvere attraverso la collaborazione problemi che singoli individui non sarebbero in grado di risolvere da soli. Dall’altro lato, una parte della psicologia è convinta invece che in un ambiente di lavoro sia importante che ognuno abbia un adeguato spazio di privacy, e che sia molto importante sapere chi controlla chi, quali informazioni sono condivise e quali no, ecc. Dalle indagini condotte attraverso questionari sappiamo già che l’open space è generalmente fonte di malcontento tra gli impiegati, per i motivi appena descritti e perché in generale riduce le possibilità di concentrazione.

Il nuovo studio, pubblicato a firma di Ethan S. Bernstein e Stephen Turban, della Harvard Business School di Boston, è stato realizzato utilizzando dei dispositivi che i partecipanti indossavano appesi al collo. Questi erano composti da un sensore a infrarossi, in grado di capire quando la persona si trovava di fronte a un collega (connettendosi al dispositivo di quest’ultimo); erano poi dotati di un microfono che teneva traccia di quando le persone stavano parlando e quando stavano ascoltando (ma non di ciò che veniva detto); un accelerometro misurava i movimenti e la postura, e infine un sensore Bluetooth catturava la localizzazione spaziale nell’ufficio. I dati sono stati raccolti in due fasi, ognuna durata 15 giorni lavorativi (tre settimane), con un intervallo di tre mesi tra ogni fase. La prima rilevazione è stata fatta in un assetto di spazi separati da pareti e da porte (cioè quello che l’azienda aveva sempre utilizzato). Nei tre mesi di pausa, l’azienda ha portato a compimento un ridisegno dei suoi spazi di lavoro, passando all’open space. I numeri rilevati ed elaborati alla fine dello studio sono piuttosto impressionanti.

I partecipanti, dopo il riassetto dell’ufficio, passavano il 72 per cento del tempo in meno interagendo faccia a faccia (da poco meno di sei ore a poco più di un’ora e mezza, nell’arco di 15 giorni). Inoltre, è incrementato del 56 per cento il numero di mail inviate ad altri partecipanti, ed è aumentato del 20 per cento quello di mail ricevute. L’instant messaging, allo stesso modo, è aumentato sia come numero di messaggi (+67 per cento), sia come numero di parole inviate (+75 per cento). Quindi, affermano i ricercatori, «in uno spazio privo di confini, l’interazione elettronica ha rimpiazzato quella faccia a faccia».

Al di là delle valutazioni che si possono dare al fatto in sé, bisogna prendere in esame un altro fattore, visto che si parla di ambienti di lavoro: la produttività. Se infatti il passaggio dalle interazioni dirette a quelle mediate si traducesse in un aumento della produttività, bisognerebbe comunque dire che il modello dell’open space è vincente ai fini dell’azienda. Neanche da questo punto di vista però tale modello si dimostra superiore.

Secondo l’azienda coinvolta, gli indici di produttività registrati dai lavoratori a seguito della riorganizzazione sono peggiorati. In sostanza, dunque, la ricerca sembra affermare che togliere le pareti porta i lavoratori a cercare altre vie per isolarsi. Al contrario, la consapevolezza di avere uno spazio privato in cui gestire la propria attività porta a ricercare maggiormente i contatti faccia a faccia con i colleghi.

(Foto di Alex Kotliarskyi su Unsplash)