
Il 13 novembre è stato presentato dal governo il rapporto sui tempi di realizzazione e di spesa delle opere pubbliche in Italia. Dal documento emerge un cronico “ottimismo” nella previsione dei costi e delle tempistiche, puntualmente smentito da una realtà fatta di inefficienze che si influenzano a catena e costi che lievitano senza controllo. Il tempo medio di attuazione degli interventi è di 4 anni e mezzo, ma c’è una variabilità molto grande in base ovviamente all’entità dell’opera. La frequenza con la quale sono riscontrati i ritardi «porta a dire che hanno assunto un carattere sistemico» e che hanno «un’elevata capacità di attivarsi e alimentarsi reciprocamente (ad esempio, le carenze progettuali determinano crescita dei costi, necessità di reperire ulteriori finanziamenti, aumento del rischio di contenzioso) e quindi di accrescere significativamente il loro impatto sui tempi di attuazione». La tendenza degli ultimi anni vede tra l’altro un peggioramento in atto visto che, come osserva il Post, «Rispetto al rapporto del 2011 i tempi di attuazione si sono allungati, in particolare per le opere dal valore superiore a 100 milioni di euro, passando da una media di 11,1 anni a quella di 14,6 anni».
Ogni inefficienza, “a cascata”, cade sulle fasi successive del lavoro, rendendo ogni intervento un’impresa dagli esiti incerti, dalla quale chi potrà cercherà di trarre vantaggio per sé a scapito della collettività. Quest’ultima, spesso non trae alcun vantaggio dalle opere realizzate, o comunque ne ottiene ma molto meno rispetto allo sforzo economico e al peggioramento della qualità della vita che queste comportano. «Proprio come un nuovo stabilimento che venisse utilizzato al 10 per cento della sua potenzialità, anche scavare efficientemente un buco nella montagna sarebbe un enorme spreco di risorse se ci fosse il fondato rischio di ritrovarlo vuoto», osservano Paolo Beria, Raffaele Grimaldi e Francesco Ramella in un articolo pubblicato su Lavoce.info. Spesso manca completamente un’analisi costi-benefici attendibile e realistica. Al suo posto si utilizzano dati talvolta non aggiornati o talvolta utilizzati in maniera strumentale e approssimativa, perché evidentemente si vuol dare a tutti i costi avvio a un cantiere, tralasciando il fatto che esso non abbia alcuna reale utilità.
L’articolo appena citato porta come esempio, tra gli altri, la linea ferroviaria Torino-Lione (comunemente detta “Tav”). Lo studio portato avanti per giustificare tale enorme intervento, che com’è noto sta trasformando in pericolosi terroristi anche i più pacifici abitanti di una valle un tempo poco conosciuta, riporta infatti dati completamente sballati rispetto alla realtà. Nell’ultima analisi disponibile, quella del 2012, «si ipotizza che i flussi di merce che attraversano il versante occidentale delle Alpi su gomma raddoppino tra il 2000 e il 2030 e quadruplichino entro metà secolo. Le previsioni di crescita del numero di veicoli pesanti appaiono incoerenti con la reale evoluzione dei traffici negli ultimi vent’anni. Come evidenziato in figura 1, il traffico pesante attraverso i trafori stradali del Fréjus e del Monte Bianco ha raggiunto un massimo di circa 1,4 milioni di veicoli nel 1994, si è quindi stabilizzato e negli ultimi anni si è ridotto di circa il 20 per cento sia a causa della recessione sia per la diversione di una parte dei flussi su altri itinerari causata da un rilevante aumento dei pedaggi. Le proiezioni derivano dall’applicazione a quella specifica direttrice dei tassi di crescita medi dei flussi di merce registrati degli scorsi decenni lungo l’intero arco alpino».
Non si tiene conto, con questo approccio sconsiderato e iper ottimista, del fatto che allora le economie di mezza Europa erano in crescita, e inoltre era in atto una fase di miglioramento generale delle vie di comunicazione tra diversi Paesi, dunque era fisiologico che si avesse un aumento del traffico. Ma da allora tale flusso si è stabilizzato, così la linea ferroviaria perde uno dei motivi forti della sua “indispensabilità”. «Sembra dunque ripetersi l’“errore” già compiuto negli studi redatti nei primi anni Duemila dalla commissione intergovernativa franco-italiana che stimavano per il 2015 un numero di veicoli medio giornaliero pari a 6.600, cioè esattamente il doppio rispetto a quelli registrati lo scorso anno. Ancor prima, sono state smentite le previsioni del traffico ferroviario sulla linea storica contenute nei primi studi di fattibilità a inizio anni Novanta». A quanto pare siamo un Paese che spende male soldi che destina a finalità sbagliate.