Due storie di italiani ultraottantenni oggi catturano la nostra attenzione, perché sono lo specchio di un Paese che si è smarrito e non è più in grado di far funzionare i propri meccanismi. Il primo si chiama Silvano Toniolo, ha ottant’anni e da otto mesi vive in treno, dopo essere stato sfrattato. Senza più un tetto sopra la testa, Silvano non si è perso d’animo e si è arrangiato come poteva. Avendo subito un ictus tempo fa, ora è parzialmente invalido e quindi ha diritto a una tessera per viaggiare gratis sui treni, che così sono diventati la sua nuova casa. È una storia che esce dai cliché perché non siamo di fronte alla nascita di un barbone. La sua domanda per ottenere una casa popolare è stata accettata, ma ancora non gli è stata assegnata un’abitazione. Nel frattempo, egli sfrutta la possibilità di viaggiare, con grande dignità, nel rispetto delle regole e in attesa di uscire da questa fase temporanea: «Non mi sono mai fermato a dormire in stazione, piuttosto viaggio di notte, scendo a fine corsa e risalgo su un altro treno in coincidenza».

Ciò che colpisce di questa storia è che Silvano, in teoria, in questa situazione non ci dovrebbe stare. La sua è stata una vita di lavoro, come infermiere, a Torino (e anche qualche mese in Uganda come volontario in una missione). Un impiego che ha seguito un arco temporale compiuto, fino ad arrivare alla stagione del ritiro e della pensione. Niente licenziamento, niente esuberi, Silvano non è un “esodato”. Solo che a un certo punto non aveva più una casa e il sistema (lo Stato? gli enti locali? l’associazionismo?) non è stato in grado di stargli vicino, l’ha messo ai margini. E lui a quel margine gira intorno, seguendo il corso dei binari. Cuneo, Savona, Vercelli, Torino, e poi ancora. Un viaggio continuo, compiuto da una persona che vorrebbe rimettere radici nella propria città, ma non può.

L’altra storia che merita attenzione è quella di un giovane 87enne di nome Giorgio Napolitano. Anch’egli schiavo di questi tempi confusi e inconcludenti (specie a livello politico), ha dovuto accettare un incarico che da anni -quasi a esorcizzarlo- diceva di non voler ricoprire una seconda volta: quello di presidente della Repubblica. Anch’egli, come Silvano, costretto non su un Intercity ma nelle stanze del Quirinale, con sulle spalle le sorti di un Paese che più volte, da un anno e mezzo a questa parte, è stato chiamato a reggere. Con il suo intervento di lunedì di fronte alle Camere e ai delegati regionali egli ha inaugurato un nuovo record, leggendo la prima strigliata d’insediamento della storia repubblicana. Si è commosso subito, nel dichiarare tra le motivazioni della sua candidatura un «senso antico e radicato di identificazione con le sorti del Paese». Poi ha bacchettato tutti, senza sconti. E la reazione della platea non ha potuto che infastidire. Chi non ha applaudito ha scelto di identificare le colpe dello stallo con la figura del presidente, ed è un errore. Ma anche chi ha applaudito fino a spellarsi le dita si è coperto di ridicolo, autoassolvendosi dalle critiche precise e puntuali di Napolitano, senza rendersi conto di comportarsi alla stregua di un imputato che canta lodi di ammirazione e simpatia al giudice che lo dichiara colpevole di un reato che ha commesso. Quanto meno surreale.

E così, il Paese dei baby pensionati, poi divenuto dei bamboccioni e dei precari, ha incastrato una generazione che ormai dovrebbe defilarsi dall’attualità e seguire dall’esterno le sue vicende, condannandola a un’iperattività che non dovrebbe appartenere a quella stagione della vita. In un colpo, dimostriamo di non essere in grado di supportare i nuovi talenti e assistere nel riposo quelli che ormai si sono espressi pienamente.

[Domani il blog non sarà aggiornato. Buon 25 aprile a tutti e appuntamento a venerdì 26]