Nell’Italia dei misteri, oggi ricorrono i vent’anni di un attentato i cui contorni, lungi dall’emergere dall’oscurità, sembrano infittirsi di ombre col passare del tempo. Il 19 luglio 1992, in via D’Amelio a Palermo, un’esplosione di tritolo e altri esplosivi metteva fine alla vita di Paolo Borsellino e di cinque componenti della sua scorta: Agostino Catalano, Claudio Traina, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Eddie Walter Cosina. Più delle parole che possiamo aggiungere noi che gli siamo sopravvissuti, hanno forza quelle del magistrato, che assieme a Giovanni Falcone, Giuseppe Di Lello e Leonardo Guarnotta ha condotto una battaglia senza pari alla criminalità siciliana lavorando nel pool antimafia ideato da Antonino Caponnetto (che a sua volta sviluppò un’idea di Rocco Chinnici, altra vittima di mafia): «Io voglio decisamente credere, me lo impongo, che la morte di Falcone sia un fatto così dirompente, così drammatico, che bandendo ogni sofisma, ogni ipocrisia, ogni situazione di compromesso, il potere politico riesca finalmente ad avere la forza di prendere una serie di decisioni ordinarie ma drastiche, perché i magistrati non debbano sempre lavorare quasi nonostante le norme. Talvolta alcune di esse sembrano fatte soltanto per difficultare il lavoro. Se non si pone rimedio a questa dicotomia fra il molto che si conosce e il poco che si riesce a condannare, viene quasi voglia di alzare le braccia».

Questa una delle tante dichiarazioni raccolte nel documentario sugli ultimi giorni di vita di Paolo Borsellino dal titolo “L’uomo che sapeva di dover morire”, di Maria Grazia Mazzola. Il film è stato trasmesso su Rai1 domenica 15 luglio alle 23,20, all’interno del contenitore “Speciale Tg1”. Un punto del palinsesto che non rende giustizia, a nostro parere, all’importanza del personaggio e alla qualità del documentario. Per questo vi proponiamo qui il link alla pagina di Rai Replay su cui (ancora per qualche giorno) è possibile rivedere la pellicola. Che peraltro si sofferma, nel finale, sulla scomparsa della fantomatica “agenda rossa” del magistrato, su cui fonti informate riportano che egli appuntasse le questioni più delicate della sua vita personale e professionale, nonché gli argomenti che intendeva riferire alle autorità. Un’agenda che non è mai stata trovata all’interno della borsa, intatta, che Borsellino lasciò nell’auto poco prima di essere ucciso. Un elemento che sarebbe fondamentale per proseguire le indagini di cui proprio allora iniziava a occuparsi e di cui ancora poco si sa e quasi nulla si dice, ossia la trattativa Stato-mafia, con cui quest’ultima proponeva alle istituzioni di trovare un accordo per fermare le stragi, in cambio di una contropartita da definire.

A vent’anni dalla sua morte, Borsellino meriterebbe se non altro che si scoprisse la verità sull’attentato che l’ha ucciso. E invece, «non solo non sappiamo chi l’ha ucciso -scrive Enrico Deaglio nel suo libro “Chi ha ucciso Paolo Borsellino. Una storia di orrore e menzogna”-, ma innumerevoli versioni, continue verità, continuano ad ucciderlo. Borsellino viene continuamente riesumato in uno spettacolo macabro che insulta la sua memoria e noi spettatori».