Da tempo la psicologia si interroga sul ruolo del “pensiero a voce alta” nel nostro sviluppo cognitivo. È un comportamento molto comune nei bambini, ma che negli adulti lascia presto il posto a un ragionamento silenzioso, che seppure verbalizzato passa attraverso quella “voce interiore” che tutti abbiamo nella testa. La scrittrice e docente di letteratura Nana Ariel, che è solita parlare a se stessa per strutturare il pensiero, si è chiesta su Psyche cosa ci sia dietro a questo particolare comportamento e se abbia una qualche utilità anche in età adulta. Secondo la sua esperienza l’abitudine di verbalizzare il pensiero, oltre a farle guadagnare una certa curiosità da parte dei vicini, le ha permesso di migliorare le proprie abilità nel ragionare e nel parlare. Secondo Ariel parlare non è solo un mezzo di comunicazione, bensì una “tecnologia del pensiero”, che incoraggia la formazione stessa dei pensieri.

Non è un’idea nuova

Nella Grecia e nella Roma antiche era già noto lo stretto legame tra il linguaggio e il pensiero. Ma in età moderna colui che tra i primi ha sviluppato in maniera organica questo concetto è stato lo scrittore tedesco Heinrich von Kleist, nel suo libro del 1805 Über die allmähliche Verfertigung der Gedanken beim Reden (che in italiano potrebbe essere tradotto come Sulla graduale produzione dei pensieri mentre si parla). Lo scrittore descrive la propria abitudine di usare il parlato come metodo di pensiero, e ipotizza che forse quando non siamo in grado di trovare la soluzione a un problema attraverso il pensiero libero, potremmo riuscirci con la libera oratoria. Von Kleist nota che quando ragioniamo di solito ci viene alla mente un accenno astratto di un pensiero, ma il parlato aiuta a trasformare questo abbozzo in un’idea compiuta. Non è il pensiero che produce il linguaggio ma il contrario. Così come “l’appetito vien mangiando”, ipotizza Von Kleist, “le idee vengono parlando”. A dirlo è uno scrittore vissuto tra ‘700 e ‘800, quindi i suoi argomenti vanno presi più come suggestioni che come ipotesi dotate di una qualche base scientifica. Eppure un loro valore ce l’hanno, essendo basate sull’esperienza diretta di chi ha esercitato una professione intellettuale.

Da adulti perdiamo la voce

Interessante notare come, mentre il bambino cresce e sviluppa sempre meglio il linguaggio e la sua capacità di parlare, man mano che diventa adulto perde questa abitudine a pensare ad alta voce. Secondo lo psicologo Lev Vygotsky (che scriveva negli anni ’20 del Novecento), parlare a se stessi è un processo che con la crescita viene interiorizzato e diventa un pensiero muto, che sfrutta la voce interiore. Ma perché questo avviene? Secondo alcuni psicologi il discorso interiore prosegue le funzioni prima esercitate dal pensiero ad alta voce, facilitando la capacità di risolvere i problemi, attivando la memoria di lavoro e preparando ai contatti sociali. Secondo altri invece il ragionamento silenzioso è frutto della degenerazione di una capacità cognitiva fondamentale di fronte a una pressione sociale. Il sociologo Erving Goffman sostiene che parlare a se stessi è un tabù nella nostra società perché è idea condivisa che il parlato sia un evento comunicativo, non introspettivo.

I vantaggi di parlare ad alta voce

Eppure, sembrerebbe che pensare ad alta voce abbia dei vantaggi concreti. Secondo lo psicologo Charles Fernyhough, il discorso interiore appare in una forma condensata e parziale, spesso con singole parole e frasi iper-sintetiche. Parlare, così come scrivere, permette invece di recuperare i pensieri nella loro interezza, usando ritmo e intonazione per sottolineare il senso pragmatico e argomentativo, il che favorisce lo sviluppo di idee sviluppate e complesse. Inoltre si riconosce una proprietà “generativa” all’atto di parlare o scrivere. I pensieri cioè non vengono solo “tradotti” dal pensiero astratto al segno linguistico, bensì la trasformazione aggiunge nuova informazione al processo mentale, creando nuovi flussi mentali. Come si diceva, pensare ad alta voce migliora anche la qualità dialogica del nostro discorso. Anche se non abbiamo un destinatario, siamo portati a esprimerci come se ci fosse un ascoltatore astratto, e ad agire in accordo con le sue aspettative.

(Foto di Afif Kusuma su Unsplash)

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