“Di tutte le cose che le donne possono fare nel mondo, parlare è ancora considerata la più sovversiva”, scrive Michela Murgia in Stai zitta. Una rilettura del suo libro, pubblicata su inGenere, alla luce dei più recenti fatti di cronaca.

A Giulia Cecchettin, che sappiamo non sarà l’ultima.

In un libro molto bello di qualche anno fa, Michela Murgia descrive con la precisione e la ricchezza di sfumature che la contraddistinguono tutte le modalità in cui alle donne viene sistematicamente tolta la parola in ambito pubblico.

Stai zitta (Einaudi, 2021) andrebbe letto nelle scuole per la sua capacità di fare un inventario puntuale di situazioni in cui tutte ci siamo trovate almeno una volta, mettendo in fila le pratiche tipiche che vengono utilizzate per zittire le donne.

Si va dal brutale e schietto “stai zitta!” al ricorso a strategie in apparenza più sofisticate, ma in sostanza tese allo stesso obiettivo: sminuire le donne che parlano, non riconoscere loro autorevolezza, chiamarle per nome e mai per cognome (e men che mai menzionando il loro titolo di studio), riconoscerne il valore soltanto se scelgono di incarnare modalità di comportamento e di leadership tipicamente maschili.

Non ci sono donne ai vertici delle organizzazioni e delle istituzioni, dice Murgia. E quando ci sono (ad esempio ora che ci sono) sono donne sole al comando. Donne che ripropongono un modello di leadership basato sulla forza, che non mette in discussione il sistema e non prevede la decostruzione di un contesto patriarcale che penalizza le donne.

Sono donne che non fanno politiche per le donne, che non portano avanti i temi dell’agenda delle donne e dei femminismi: dall’attenzione alla salute, alle politiche riproduttive e alla definizione di azioni trasformative per il contrasto alla violenza di genere, a una visione della cura come paradigma di valori e alla genitorialità come valore sociale e condiviso.

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(Foto di Kristina Flour su Unsplash)

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