Occupandoci spesso di disabilità, ci imbattiamo (e utilizziamo) talvolta il concetto di autonomia, come obiettivo centrale ed elemento essenziale per definire la qualità della vita. Sulla Domenica del Sole 24 Ore è in corso da qualche settimana una riflessione di tipo filosofico sul concetto. Riportiamo l’articolo di Carla Bagnoli pubblicato ieri (le puntate precedenti sono state pubblicate sulla Domenica del 5, del 12, del 19, del 26 giugno e del 3 luglio).

L’autonomia personale è generalmente considerata una caratteristica fondamentale della persona. Ma persone autonome non si nasce, si diventa. Lo si diventa grazie agli altri, ovvero grazie a relazioni personali e strutture sociali che ci consentono di sviluppare la nostra capacità di essere autonomi. Per questo, l’autonomia è un valore fragile: la sua inevitabile dipendenza dagli altri e da condizioni sociali propizie rendono la nostra autonomia personale particolarmente vulnerabile. Questa vulnerabilità non è solo di tipo sociale. Anzi, le precondizioni sono di tipo biologico. E questo condiziona in modo determinante la possibilità di diventare e rimanere persone autonome. Le vicissitudini dell’autonomia descrivono, perciò, un ambito di interesse condiviso da medici, filosofi e scienziati politici, teorici del valore e dell’azione.

Poiché l’autonomia ha un valore molto alto, è generalmente considerata un ingrediente necessario e indispensabile della vita buona. Molti pensano che non vale la pena vivere una vita senza autonomia. Ma è proprio vero? È frequente che quando l’autonomia personale è fortemente compromessa, si mantenga comunque un attaccamento alla vita che prima avremo considerato impossibile. Da qui la domanda: quanta autonomia bisogna avere per vivere in modo soddisfacente e dignitoso? O, meglio, quale autonomia ci è indispensabile per condurre una vita buona?

L’autonomia, spiega Agnieszka Jaworska, non è un concetto semplice come ritengono molti; è un concetto complesso che ammette stadi e livelli diversi. Jaworska, ora docente di filosofia alla University of California at Riverside, ha insegnato per molti anni a Stanford University, è membro del Center on Longevity di Stanford e del Kadish Center for Morality, Law, and Public Affairs della University of California di Berkeley. Si occupa dei dilemmi morali che sorgono nella cura di individui il cui status di persona è precario, compromesso o incerto, come le persone con Alzheimer, i tossicodipendenti, gli psicopatici, e gli infanti.

Jaworska vanta una vasta esperienza in bioetica clinica, maturata sotto la direzione di Ezekiel Emanuel al Department of Clinical Bioethics del National Institute of Health di Washington. Tuttavia, l’approccio di Jaworska non è bioeticista, ma fortemente improntato alla teoria del valore e dell’azione. Infatti, la sua ricerca sullo status della persona si situa al centro di un progetto più vasto che riguarda la natura del valore e la psicologia delle attività valutative. A differenza della maggioranza degli studi sull’Alzheimer e altre patologie che compromettono l’integrità della persona e la sua autonomia, quello di Jaworska parte da una riflessione sulle attività valutative e considera l’autonomia in relazione alla capacità di avere valori, dare valore alle cose o agli oggetti, avere cura di ciò cui diamo valore.

L’aver cura è un concetto ordinario che Harry Frankfurt, professore emerito a Princeton University, ha trasformato in un potente strumento concettuale per spiegare che cos’è il valore. In questa prospettiva, Jaworska distingue due aspetti dell’autonomia. «Prima di tutto, una persona deve avere dei punti di partenza appropriati per prendere delle decisioni autonome. Verosimilmente, questi saranno i suoi propri valori, i principi che guidano la sua vita. Il secondo aspetto è la capacità di condurre la propria vita in accordo con i propri valori. L’autonomia piena implica entrambi questi aspetti, ma credo che il primo aspetto sia molto più importante. Senza il primo, l’autonomia è impossibile. La questione non si pone nemmeno. Senza il secondo, invece, l’autonomia è compromessa, ma un livello minimo di autonomia può essere ancora realizzato. Questo ci importa specialmente in certe condizioni nelle quali questi due aspetti dell’autonomia si scindono: il primo è presente, ma non il secondo. Per esempio, negli stadi intermedi della malattia di Alzheimer, si può conservare la capacità di valutare e di dare valore a qualcosa, anche se non si è più in grado di capire come condurre la propria vita».

Una persona con gravi problemi di memoria o deficit cognitivi sarà disorientata, incerta o confusa sui mezzi da utilizzare per perseguire i propri fini. E tuttavia, può ancora esserci qualcosa che gli preme, qualcosa cui è attaccato e cui dà valore. Per Jaworska questa è una base sufficiente per ascrivere lo status di persona autonoma. «Queste persone hanno bisogno di assistenza per tradurre i propri valori in azioni concrete, per metterli in pratica nelle circostanze particolari delle loro vite. Quando sono assistite, possono mantenere un certo livello di autonomia. Quindi, ciò che è peculiare della mia concezione dell’autonomia è l’idea che qualcuno può aver bisogno di essere assistito nel condurre una vita autonoma». L’originalità della posizione di Jaworska si avverte quando si osserva che per molti approcci tradizionali, l’autonomia equivale all’autosufficienza. «Ciò che dico può sembrare paradossale, se si considera l’autosufficienza come l’essenza dell’autonomia. Credo, invece, che la parte essenziale sia la capacità di dare valore; è questa la radice del governo di sé».

Jaworska ha formulato questa teoria per la prima volta nel 1999, in un saggio pionieristico, «Respecting the Margins of Agency: Alzheimer’s Patients and the Capacity to Value», che ha segnato una svolta nei dibattiti sulla persona e i suoi confini. «In una prospettiva tradizionale, la malattia di Alzheimer può sembrare un caso ovvio in cui una persona ha perso la capacità di essere autonoma: non può più dirigere la propria vita dall’interno, non può più auto-governarsi. Tuttavia, a mio modo di vedere, se una persona affetta da Alzheimer ha ancora valori e sa quali sono i suoi principi di auto-governo, allora non è più chiaro che non è un agente autonomo. Questa persona conserva, infatti, qualcosa di molto speciale che distingue gli agenti autonomi (le persone) da agenti non autonomi (la grande maggioranza degli animali non umani)». Dunque, anche le persone che hanno bisogno di assistenza per condurre la propria vita come vogliono possono dirsi autonome, se mantengono intatta la loro capacità di dar valore alle cose e alle persone. «Questa possibilità è resa invisibile nei resoconti tradizionali dell’autonomia».

L’articolo continua sul Sole 24 Ore del 10 luglio

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