© Marie Aschehoug-Clauteaux

Il 10 ottobre si è celebrata la nona giornata mondiale contro la pena di morte. Sarebbe ora di abolirla, questa giornata, e lasciare che in quella data si combattano altre cause. E invece non è ancora il momento di farlo, perché purtroppo la pena capitale è ancora in vigore in un grande numero di Paesi nel mondo. Tra i più vicini a noi la Bielorussia, unico paese europeo (e unica tra le ex repubbliche sovietiche) a non aver abolito questa estrema misura di “giustizia”. Nel 2010, Amnesty international ha registrato migliaia di esecuzioni in 23 Paesi. Alla fine dello scorso anno, i condannati a morte in attesa d’esecuzione erano almeno 17.800. Va detto che dagli anni ’90 del secolo scorso la tendenza abolizionista ha conosciuto una decisa accelerazione. «Nel 1977, quando Amnesty international partecipò alla Conferenza internazionale sulla pena di morte a Stoccolma, i paesi abolizionisti erano appena 16. Oggi, il numero dei paesi abolizionisti ha superato quello dei mantenitori, che sono 58». Ultimo in ordine di tempo ad aver cancellato il provvedimento il Gabon, 96esimo Paese al mondo e 16esimo nell’Unione africana.

Ma c’è ancora tanto da lavorare, perché le voci che si spengono dai bracci della morte di tutto il mondo sono ancora tante, troppe. Il 21 settembre in Georgia, Stati Uniti, è stato messo a morte Troy Davis, 42enne afroamericano, nel braccio della morte dal 1991. Alcuni giorni prima dell’esecuzione, Davis ha inviato una lettera ad Amnesty, e le sue parole arrivano dritte in pancia. Ma è una lettera di grande lucidità e maturità, che va oltre ogni retorica e parla, dovrebbe parlare, anche a un livello più alto. Ne trascriviamo alcuni stralci:

«Voglio ringraziare tutti voi per i vostri sforzi, per la dedizione alla causa dei diritti umani, per la vostra bontà. In tutti questi anni ho vissuto con emozione, con gioia, con tristezza e con una fiducia senza limiti il vostro impegno. È grazie a tutti voi se io oggi sono vivo. […] questa non è una questione che riguarda la pena di morte, non è una questione che riguarda Troy Davis. Qui si sta parlando di Giustizia, e di come l’essere profondamente umani significa pretendere che la giustizia prevalga. […] E non importa quello che succederà nei giorni, nelle settimane che verranno: questo Movimento che vuole porre fine alla pena di morte, cercare la vera giustizia, realizzare un sistema che protegga gli innocenti non si fermerà. Ci sono ancora tantissimi Troy Davis. Questa lotta per porre fine alla pena di morte non è finita, non è stata persa con me. Ma continua con la stessa forza, per salvare tante persone innocenti imprigionate in tutto il mondo. Dobbiamo smantellare questo sistema ingiusto città per città, Stato per Stato e Paese per Paese. Non vedo l’ora di stare con voi, non importa se fisicamente o con il mio spirito. Un giorno, prima o poi, potrò dire: “Io sono Troy Davis, e io sono libero”. Non smettete mai di lottare per la giustizia, e vinceremo!».

Il giorno stesso, l’ufficio stampa di Amnesty international ha diffuso un comunicato stampa, in cui si apprendeva che «All’inizio della giornata, in Iran era stato impiccato in pubblico un ragazzo di 17 anni, condannato per l’omicidio di un noto atleta, nonostante il divieto internazionale di mettere a morte minorenni al momento del reato. Tra le due esecuzioni, in Cina veniva messo a morte un cittadino pachistano giudicato colpevole di spaccio di stupefacenti, sebbene i reati di droga non ricadano nella categoria dei “crimini più gravi” di diritto internazionale. […] Infine, sempre negli Usa ma in Texas, è stato messo a morte Lawrence Brewer, per aver preso parte a un omicidio nel 1998». Aspettiamo con ansia il momento in cui il 10 ottobre sarà un giorno come un altro, e nel frattempo ci auguriamo che si realizzino presto le parole di Guadalupe Marengo, vicedirettrice per le Americhe di Amnesty international: «È il momento che Usa, Cina, Iran e Bielorussia riconoscano quanto sono isolati nel mondo».