Amnesty international ha diffuso in questi giorni i dati dei suoi studi sulla pena di morte nel mondo. Un riassunto molto efficace è fornito da video che pubblichiamo in questa pagina. Il rapporto completo stilato dall’associazione paladina delle campagna per l’abolizione della pena capitale si può leggere seguendo questo link, e parla di una sostanziale stabilità tra il 2011 e il 2012 in merito al numero di esecuzioni (680 contro 682), ma di un rimpicciolimento dell’area geografica in cui queste sono state messe in atto, (le esecuzioni hanno coinvolto 63 Paesi nel 2011, 58 nel 2012). Negli Stati Uniti (unico Paese americano ad applicare la pena di morte) sono saliti a 17 gli Stati che l’hanno rimossa dal proprio sistema giuridico, con l’aggiunta del Connecticut in aprile dello scorso anno. Purtroppo ci sono Paesi che hanno ripreso le esecuzioni dopo molti anni in cui non se ne verificavano, come il Giappone (qui la sospensione è durata solo 20 mesi), il Gambia (nove esecuzioni in un giorno, a trent’anni senza condanne), il Pakistan (ucciso un soldato dopo quattro anni), l’India (ferma dal 2004).

I 5 maggiori Paesi esecutori sono, nell’ordine, Cina, Iran, Iraq, Arabia Saudita, Stati Uniti e Yemen. Resta il problema della segretezza dei dati in Cina, che rende la statistica probabilmente approssimata per difetto, visto che si calcola che lo Stato della più grande economia mondiale abbia mandato a morte più della somma di tutto il resto del mondo messo assieme. In Europa c’è il neo della Bielorussia, che segretamente continua a emettere sentenze capitali e secondo fonti di Amnesty nel 2012 avrebbe messo a morte tre persone. Al di là dei numeri, che danno la dimensione del problema, va sottolineato che talvolta, soprattutto in alcuni Stati, la pena di morte è collegata all’esercizio delle più basilari libertà civili, quali quella di pensiero e di espressione. «In Iran -si legge nel rapporto-, quattro persone sono state messe a morte nel mese di giugno con l’accusa di “inimicizia verso Dio e corruzione sulla terra”. Altre cinque persone sono state condannate a morte a luglio, tutte in connessione alle proteste antigovernative della minoranza araba Ahwazi. In Sudan, le autorità utilizzano la pena di morte come strumento contro reali o presunti attivisti dell’opposizione politica». Spesso poi le dichiarazioni che portano a sentenze di morte sono estorte con la tortura (è successo in Iran e Iraq), come nelle peggiori reminiscenze da santa inquisizione. Paradossalmente, gli Stati che più applicano la pena capitale sono anche quelli dove si registrano maggiori problemi nel funzionamento del sistema giudiziario, come la Cina. Mentre negli Stati Uniti permane il problema della discriminazione razziale, che spesso orienta le sentenze dei giudici, e talvolta porta alla sospensione o abolizione della pena, proprio a causa di uno svolgimento non trasparente dei processi. Chiudiamo con la dichiarazione, molto razionale e totalmente condivisibile, del giudice della Florida Charles M. Harris: «Se la pena di morte non è un deterrente, e non lo è, se la pena di morte non ci rende più sicuri, e non lo fa, allora è solo una costosa forma di vendetta».