Di recente abbiamo parlato della capacità tutta italiana di moltiplicare gli stipendi. Nel caso dei magistrati fuori ruolo, questi ultimi lasciano l’occupazione principale, quella giuridica, per prestarsi al mondo dell’economia, dell’università o a incarichi pubblici, e oltre al compenso per la nuova mansione continuano a percepire anche lo stipendio da magistrato. La rinuncia alla moltiplicazione sta al buon cuore dei singoli, mentre la normativa è frammentaria e inadeguata. Altro capitolo vergognoso e antipatico per coloro che faticano ad arrivare a condurre una vita dignitosa è quello delle “pensioni d’oro”. I tanti ex manager italiani hanno infatti potuto godere di tutti i vantaggi del sistema pensionistico contributivo-retributivo che ha assicurato loro, una volta terminata la vita lavorativa, una pensione praticamente identica all’ultimo stipendio.

Secondo i dati diffusi in questi giorni, sono centomila i “super pensionati” italiani, che costano allo stato circa 13 miliardi di euro all’anno. Su qualsiasi sito d’informazione si possono trovare classifiche, top ten e ogni sorta di statistica di questi grandi contribuenti, che ora stanno vedendo ripagati i propri sforzi con gli interessi. Il problema delle pensioni d’oro non sta poi solo nella loro entità ma nel fatto che, spesso, chi le percepisce poi continua a lavorare, magari per lo Stato. E visto il profilo dei personaggi di cui stiamo parlando si tratta di cifre ragguardevoli, che vanno così a sommarsi alla pensione. Per dare un ordine di grandezza diciamo solo che al momento in cima alla lista c’è il signor Mauro Sentinelli, con i suoi 91.337,18 euro mensili.

«Questi numeri –ha commentato la deputata del Pdl Debora Bergamini- dimostrano tutta la portata distorsiva di quel criterio retributivo dal quale ci stiamo fortunatamente allontanando grazie alle riforme pensionistiche degli ultimi anni. Benché gli interventi in materia siano particolarmente delicati, anche sul fronte della costituzionalità, e avendo cura di evitare qualsiasi colpevolizzazione verso i beneficiari di questi trattamenti, che li hanno maturati secondo le regole vigenti, è evidente che il tema coinvolge una questione di equità e di coesione sociale non più trascurabile dalle istituzioni, specialmente in un momento di grave crisi economica e di pesanti sacrifici per tutti». Tradotto in italiano, la necessità di intervenire è evidente, ma c’è il rischio di scontrarsi con la Corte costituzionale per il principio del diritto acquisito.

Sul fatto che i diritti siano stati maturati secondo le «regole vigenti» va confrontato con la vita parlamentare del Paese, di cui Sergio Rizzo dà un estratto in un bell’articolo pubblicato sul Corriere. Si parla della “leggina” più veloce della Repubblica, che nel 1994 permise a Biagio Agnes (ex direttore generale della Rai), pensionato dal 1983, di «decuplicare il suo assegno: da 4 milioni di lire a 40 milioni 493.164 lire al mese. Decorrenza, marzo 1994. Un mese dopo l’approvazione della legge». Ci chiediamo perché non si possa considerare altrettanto acquisito il diritto di coloro che hanno iniziato a pagare i contributi in un sistema che garantiva loro, dopo un certo numero di anni, di accedere a una pensione dignitosa, trovandosi poi con un pugno di mosche alla soglia della vecchiaia. Persone tra i 50 e i 60 anni che si ritrovano dall’oggi al domani senza lavoro o costrette ad andare in pensione con un assegno ridicolo.

La domanda che rivolgiamo alla politica (ma anche alla Corte costituzionale) è: quando si acquisisce un diritto? Nel momento in cui si entra nel mondo lavorativo e se ne accettano le condizioni, oppure alla fine, quando è il momento di uscirne (o esserne buttati fuori a calci senza tanti complimenti)? Il “contratto sociale” quando si firma? All’inizio del percorso lavorativo o alla fine? Ci sembra una domanda legittima. A poco serve la proposta di Bruno Tabacci e altri parlamentari affinché si imponga, almeno, una scelta tra la pensione e lo stipendio. Bisogna avere la coerenza di fissare un tetto, a beneficio di chi domani avrà bisogno di una pensione dignitosa, ma che oggi inizia a pagare per quel diritto, che quindi forse va considerato fin da subito come acquisito.