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Il 5 maggio l’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) dichiarava che la pandemia di Covid-19 non è più un’emergenza pubblica. Solo pochi giorni prima, il 26 aprile, la stessa OMS aveva annunciato l’inizio di un percorso per la realizzazione di un nuovo piano per prepararsi alle future pandemie da malattie respiratorie, come quelle causate dal virus dell’influenza o dai coronavirus, che in seguito sarà esteso anche ad altri patogeni.

Il piano si chiama Preparedness and Resilience for Emerging Threats (PRET) e servirà a guidare i paesi del mondo nel fare tesoro delle lezioni apprese negli ultimi tre anni, sfruttando i nuovi strumenti realizzati nel frattempo.

L’idea è di allargare pratiche e procedure anche al di fuori delle strutture sanitarie perché, come abbiamo visto, gli ospedali sono solo uno dei luoghi interessati dal fenomeno. I piani di risposta devono riguardare anche i luoghi di lavoro, in tutti i settori, e in generale coinvolgere le comunità nel loro complesso.

Il cronoprogramma prevede di portare a termine le azioni del PRET entro dicembre 2025. Il piano poggia su tre attività fondamentali:

  1. Aggiornare i piani di preparazione che stabiliscono le azioni prioritarie e che tengono conto degli insegnamenti tratti dagli eventi passati.
  2. Incrementare la connessione tra le parti interessate dalla pianificazione, attraverso un coordinamento e una cooperazione sistematici. Questo comprende la creazione di sistemi basati sull’equità, lo svolgimento di esercitazioni congiunte e la condivisione di informazioni su buone pratiche, sfide e opportunità.
  3. Prevedere investimenti, finanziamenti e monitoraggio adeguati per la preparazione alle pandemie, con particolare attenzione a colmare le lacune individuate durante la pandemia appena trascorsa.

Ci auguriamo che tale iniziativa raggiunga lo scopo e ci permettiamo di sottolineare il passaggio che, al punto 2, parla di “esercitazioni congiunte”. Come hanno fatto notare, tra gli altri, lo scienziato Alessandro Vespignani e la giornalista scientifica Roberta Villa nel corso dell’ultimo Festival internazionale del giornalismo di Perugia, questo è stato uno dei punti cruciali su cui si è costruito il fallimento nella risposta immediata all’ultima pandemia. La serie di errori che hanno portato alla situazione drammatica vissuta nella provincia di Bergamo, nei primi mesi del 2020, è dovuta anche al fatto che non si è data importanza alla fase di preparazione alla pandemia.

Da tempo sapevamo che prima o poi una pandemia sarebbe arrivata. Non sapevamo quando, né da dove, ma era chiaro a tutta la comunità scientifica e alla politica che sarebbe successo. Ecco perché i piani pandemici, che pure esistevano, prevedevano una serie di misure preparatorie, ancor prima che di intervento. Se non si hanno a disposizione mascherine e altri dispositivi di protezione personale, per esempio, è difficile dare risposte adeguate al problema.

Ma un aspetto critico ha riguardato proprio le esercitazioni. Per fare un parallelo, nell’aviazione civile piloti e assistenti di volo ripetono in continuazione le procedure d’emergenza. Sanno benissimo che con tutta probabilità non dovranno mai veramente applicarle nel corso della propria vita lavorativa, ma proprio per questo c’è bisogno di ripeterle con frequenza in modo che, se mai dovessero servire, le si possa applicare con successo. Lo stesso dovrebbe valere con il piano pandemico. Non è una cosa che il personale sanitario (ma non solo, come abbiamo detto) possa studiare una volta e poi mettere nel cassetto. Quando arriva l’emergenza non ci sarà tempo di andare a recuperarlo, rileggerlo, cercare le informazioni. Dovrà essere una risposta automatica, e l’automatismo si crea con la ripetizione.

È un’idea, questa, ampiamente condivisa dalla comunità scientifica, ma che secondo quanto raccontano Vespignani e Villa non sta venendo applicata. Eppure se ne parla da mesi in ambito medico. In un articolo pubblicato lo scorso ottobre su Nature, l’epidemiologa Jennifer Nuzzo sottolineava che «Esercitazioni simili a quelle per gli incendi o i terremoti favoriscono una cultura della preparazione e creano la consapevolezza tra gli operatori sanitari che le epidemie continueranno a verificarsi, e che la chiusura totale non è l’unica opzione. Secondo Nuzzo, gli ospedali e le agenzie sanitarie governative non devono solo pianificare la risposta alle pandemie, ma anche “esercitarsi regolarmente su questi piani, in modo che non siano pieni di polvere e sconosciuti quando si verificherà l’epidemia”».

(Foto di Maksym Kaharlytskyi su Unsplash)

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