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L’Italia è stata condannata per trattamenti inumani o degradanti dalla Corte europea dei diritti dell’uomo. La sentenza si riferisce al caso di Dimitri Alberti, arrestato l’11 marzo 2010 in provincia di Verona. L’arrivo al carcere, quattro ore dopo, vede l’Alberti presentarsi con tre costole fratturate e un ematoma al testicolo sinistro. Secondo i giudici italiani l’uomo si sarebbe procurato da solo le lesioni. Secondo quelli europei non è detto visto che, sostengono, la procura non si è impegnata in un’inchiesta effettiva sull’accaduto, limitandosi ad accertare che durante la fase di arresto non ci sia stato un uso illegittimo della forza da parte dei carabinieri.

Si susseguono con una certa frequenza casi oscuri che pesano sulla condotta di alcuni rappresentanti delle forze dell’ordine nei confronti di persone fermate o arrestate, che misteriosamente subiscono lesioni (o perdono la vita) nelle ore che trascorrono tra il fermo e l’inizio dei processi. I casi di Stefano Cucchi e Federico Aldrovandi sono i più tristemente noti in questo senso. Così, dopo quella per trattamenti degradanti riservati ai detenuti, arriva sull’Italia un’altra condanna della Corte dei diritti dell’uomo. Una seconda pesante conferma del fatto che c’è qualcosa che non va nel sistema giudiziario italiano. (O meglio, sono molte le cose che non vanno, su tutte la durata dei processi, ma ora parliamo d’altro).

C’è anche un altro problema, che su ZeroNegativo abbiamo fatto rilevare più volte, e che questa sentenza fa ritornare d’attualità, ossia che nell’ordinamento italiano non c’è una legge che preveda il reato di tortura. Come abbiamo scritto qualche mese fa, il Senato ha approvato all’inizio di marzo un testo che colmerebbe questa lacuna, ma poi il testo si è fermato lì, alla Camera ancora non è iniziata la discussione. Si tratta però di una norma che così com’è non risolverebbe il problema della violenza usata impropriamente dalle istituzioni perché, come abbiamo scritto allora, «A differenza di altri Paesi il reato in Italia sarà di tipo comune, cioè potrà esserne accusato chiunque, mentre il fatto che sia perpetrato da funzionari pubblici costituirà un’aggravante. Non è un particolare da poco, perché in effetti la Convenzione di New York del 1984, a cui si ispira la legge (con trent’anni di ritardo) parla invece esplicitamente di reati commessi da forze dell’ordine». Come sempre, il passo di gambero è lo stile preferito dall’Italia nell’adottare nuove riforme, o anche nell’adeguarsi ai trattati internazionali in grande ritardo, come in questo caso.

Aggiungiamo che alcuni episodi vergognosi legati indirettamente a questi fatti hanno macchiato ulteriormente la reputazione delle forze dell’ordine. Ci riferiamo ad alcuni sindacati, che hanno avuto in passato il cattivo gusto di andare a manifestare in difesa dei colleghi, proprio sotto alla finestra del Comune di Ferrara in cui lavora la madre di Federico Aldrovandi. Ricordiamo poi l’applauso scattato al congresso Sap in favore degli agenti condannati per aver causato la morte del giovane ferrarese, sempre a opera di altri agenti. Sono episodi, sia chiaro.

Non ce la stiamo prendendo con la categoria nel suo complesso. Polizia e carabinieri svolgono un servizio indispensabile per la collettività, spesso in condizioni rese difficili dalla scarsità di personale e degli strumenti che hanno a disposizione per lavorare. Si tratta però di episodi che la categoria stessa deve essere in grado di isolare e condannare, affinché non si aggravi quello strappo tra cittadini e istituzioni che, oltre alla politica, rischia di allargarsi anche verso le forze dell’ordine.