La pandemia di coronavirus ha impresso una forte accelerazione all’aumento di piste e corsie ciclabili, anche in Italia. Eppure il percorso per una piena mobilità ciclabile è ancora lungo. Ne scrive Elena Colli su Valigia Blu.

C’è una frase che viene pronunciata in tutte le parti del globo per troncare a prescindere qualsiasi argomentazione relativa al miglioramento della mobilità ciclistica in città: “Eh ma [*inserire città a piacimento*] non è Amsterdam”.

C’è infatti questa diffusa credenza che nella capitale olandese le persone siano nate con una maggiore propensione all’uso della bicicletta. La naturale convinzione che la città sia stata fondata in quella maniera: costruita attorno alla mobilità su due ruote, da sempre. Una sorta di DNA urbano: se quel gene non ce l’hai, è inutile perdere tempo.

Ebbene, proviamo una volta per tutte a sfatare questo mito. E lo facciamo raccontando la storia di come Amsterdam sia diventata la capitale mondiale della mobilità ciclistica (perché non ci si nasce, ma ci si diventa) e di come altre città, spesso molti anni più tardi, abbiano seguito il suo esempio. Come? Compiendo una risoluta e profonda trasformazione urbana guidata dalla volontà di togliere spazio alle auto per restituirlo alle persone. Mettendo in atto una serie di rapidi cambiamenti e prese di posizione che hanno trasformato il paesaggio urbano e le menti di chi lo abita: la rivoluzione ciclabile.

Neanche Amsterdam era Amsterdam

Facciamo un passo indietro. Nei primi decenni del Novecento ad Amsterdam qualcosa di simile alle piste ciclabili c’era già, ma era completamente diverso da come lo conosciamo oggi: percorsi stretti, non connessi, pericolosi o assenti agli incroci. La verità è che in quegli anni non erano davvero necessarie: come ovunque in Europa, in strada il numero di persone in bicicletta era molto maggiore delle auto in circolazione, dunque questo tipo di infrastruttura non era necessario.

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(Foto di Markus Spiske su Unsplash)

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