A chiunque sarà capitato di trovarsi al cospetto di un’opera d’arte e sentire un senso di benessere profondo, seppure inspiegabile. Come vi sentireste, però, se vi dicessero che quel magnifico e commovente quadro di Rembrandt che avete davanti è stato generato da un’intelligenza artificiale che ne ha riprodotto alla perfezione lo stile? Probabilmente traditi, frustrati, arrabbiati. Sul perché avvengano in noi questo tipo di reazioni emotive di fronte alle opere d’arte (e alle sue falsificazioni) si interroga da tempo la psicologia. Un articolo pubblicato su Aeon a firma della docente di psicologia Ellen Winner prova a dare delle risposte.
Perché ci danno fastidio i falsi?
Secondo Winner, siamo attratti dalle opere d’arte perché ci mettono in diretto collegamento con la mente immaginativa dell’artista. Crediamo che gli artisti mettano dei significati in ciò che producono, anche se a volte è difficile individuarli. E così, ogni volta che ci troviamo davanti a qualcosa che intendiamo come arte, vi cerchiamo un’intenzionalità.
Quando guardiamo un Rembrandt, ci sembra di leggere un messaggio inviatoci da un genio del passato. Le pennellate sono indizi di come il suo braccio si muoveva mentre dipingeva, e questo può essere letto come un’espressione del suo stato d’animo mentre creava l’immagine. Nei suoi autoritratti vediamo la consapevolezza di come Rembrandt si sta rappresentando, e comprendiamo la sua autoanalisi nella serie di autoritratti fatti nel corso del tempo mentre invecchiava. Abbiamo reazioni analoghe quando guardiamo le pitture rupestri: cerchiamo di immaginare ciò che questi artisti preistorici, così simili e così diversi da noi, sentivano e intendevano con le loro azioni nel dipingere queste immagini.
Se accettiamo tutto questo, allora è chiaro perché le riproduzioni e le falsificazioni, per quanto accurate, non abbiano lo stesso potere su di noi. Le copie di Rembrandt non ci permettono di metterci in comunicazione diretta con la mente di Rembrandt.
È ciò che in psicologia si definisce essenzialismo, spiega Warren, ossia la nostra preferenza per oggetti con storie particolari, guidata da una sorta di pensiero magico. La convinzione che certi oggetti abbiano “essenze” interiori spiega il legame sentimentale che sviluppiamo con essi: se qualcuno perde la fede nuziale, non sarà soddisfatto acquistandone una copia precisa; se un bambino perde il suo orsacchiotto consumato dal tempo, non si accontenterà di averne uno nuovo. Tutto questo è molto interessante in epoca di NFT (non-fungible tokens), che permettono di entrare in possesso della “copia originale” di un’opera digitale.
Quali sono i potenziali effetti benefici dell’arte?
Secondo la riflessione e la sperimentazione psicologica, tra le risposte a questa domanda c’è il fatto che l’arte ci permette di “fuggire” dal quotidiano. Potremmo pensare alla fuga come a una scappatoia, ma in realtà gioca un ruolo importante nel nostro benessere. Quando l’arte ci fa evadere, ci porta fuori dal nostro mondo, in un’altra realtà. È il motivo per cui molti di noi non riescono ad andare a dormire senza prima entrare “in un mondo immaginario”, che sia attraverso un romanzo o una serie televisiva.
Perché allora, se si parla di fuga, siamo così spesso attratti da contenuti artistici dai connotati negativi e malinconici? Per rispondere, lo psicologo Winfried Menninghaus ha proposto il modello “distanziamento-accoglienza”. È stato dimostrato che le emozioni negative attirano la nostra attenzione, aumentano il nostro coinvolgimento emotivo e rendono l’arte più memorabile ed emozionante. Poiché però sappiamo che stiamo vivendo un’esperienza artistica, che è una forma di finzione, siamo in grado di prendere le distanze da queste emozioni e ne abbiamo il controllo. L’arte quindi ci invita ad abbracciare le emozioni negative perché queste avvengono in uno spazio sicuro, senza conseguenze pratiche per la nostra vita. Lo psicologo Paul Rozin ha definito questo comportamento come “masochismo benigno”.
(Foto di Igor Miske su Unsplash )
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