A guardare la percentuale di popolazione vaccinata negli Stati Uniti e nel Regno Unito, viene spontaneo chiedersi com’è possibile che l’Europa sia così indietro. Secondo i dati aggiornati al 2 marzo, negli Usa ha ricevuto almeno la prima dose il 13,5 per cento della popolazione, nel Regno Unito il 30,5 per cento. I principali paesi europei seguono molto staccati, con il 7,7 per cento della Germania, il 6,8 per cento della Francia o il 7,2 per cento dell’Italia. Alla base di questi numeri, come spiega Politico, c’è un diverso approccio all’approvvigionamento dei vaccini.
La Commissione europea si è impegnata, fin da quando le prime aziende annunciavano risultati promettenti nello sviluppo dei vaccini, affinché l’Europa perseguisse una strategia comune. Se l’Unione si presenta compatta al tavolo delle trattative con le aziende, era l’idea, avrà un potere negoziale maggiore e riuscirà a spuntare prezzi più bassi e maggiori garanzie per gli Stati, e quindi per i cittadini. Inoltre, questo approccio era motivato da un intento solidaristico, volto a fare in modo che i paesi più piccoli non fossero lasciati indietro nella distribuzione, a tutto vantaggio delle grandi economie del continente. Da un lato questo approccio ha funzionato. I termini dei contratti non sono pubblici, ma secondo le cifre pubblicate dai giornali l’Unione europea sta pagando meno di 2 dollari a dose per il vaccino di Oxford/AstraZeneca, mentre gli Stati Uniti circa 4 dollari. Per quanto riguarda Pfizer, gli Stati Uniti hanno negoziato un prezzo di circa 20 dollari, mentre l’UE è rimasta sotto i 15 dollari. Durante una pandemia, molti obiettano, la tempestività ha la priorità sul controllo dei costi. Ma non è solo il prezzo il criterio che ha mosso la strategia della Commissione.
Un altro principio è stato la moltiplicazione delle opzioni possibili. Assicurarsi opzioni di acquisto con più fornitori, con i vaccini ancora in fase di sviluppo, avrebbe messo al riparo da eventuali insuccessi nella fase realizzativa. Dopo un inizio stentato, la politica comune ha in effetti portato ad avere un repertorio piuttosto ricco di opzioni, ma questo si è scontrato con un altro problema: la lentezza dei processi di approvazione dei vaccini. Le compagnie farmaceutiche sono portate a presentare domanda di autorizzazione dove pensano di rientrare più velocemente dai propri investimenti, quindi puntano dritti agli Stati Uniti. L’Europa, nonostante gli sforzi per snellire le procedure, ha processi di approvazione molto lunghi. Così si è trovata sempre uno o due passi indietro rispetto al mondo anglosassone.
L’approccio più spregiudicato degli Stati Uniti in termini di investimenti, inoltre, al momento sta pagando. Mentre l’ex presidente Donald Trump minimizzava la pericolosità del virus e la portata della pandemia, a maggio 2020 il suo governo investiva 10 miliardi di dollari nell’operazione “Warp Speed”, che prevedeva di finanziare pesantemente lo sviluppo di alcuni vaccini ancora in fase sperimentale, per assicurarsi centinaia di milioni di dosi entro gennaio di quest’anno. Se questi progetti non fossero andati a buon fine, gli Stati Uniti avrebbero perso completamente l’investimento e oggi sarebbero in grande difficoltà. Invece le cose sono andate anche meglio del previsto, e oggi quella politica ad alto rischio sta pagando. Al confronto, l’approccio più cauto dell’Unione europea, almeno per ora, non ne sta uscendo benissimo. Certo, c’è sempre la possibilità che qualcosa vada storto a un certo punto, e che gli equilibri si ribaltino repentinamente. Vedremo, questa pandemia ci ha insegnato che non appena si pensa di avere messo a fuoco la situazione, lo scenario cambia all’improvviso.
C’è un altro elemento che fa preferire il mercato statunitense ai produttori di farmaci: le protezioni legali di cui godono. Una legge americana, conosciuta come PREP Act, garantisce alle compagnie di non finire in tribunale se qualcosa va storto con un vaccino o un farmaco realizzato per rispondere a un’emergenza. I produttori chiedevano alla Commissione europea garanzie simili, ma questa non ha acconsentito. Ancora una volta, un atteggiamento più prudente e a tutela dei cittadini ha rallentato il percorso per ottenere le forniture.
Quando la campagna vaccinale è iniziata in Europa, il 26 dicembre (con un numero di inoculazioni più simbolico che sostanziale), negli Stati Uniti e nel regno unito si vaccinava già da un paio di settimane, e da tre nel Regno Unito. Poi a metà gennaio è arrivato l’annuncio di Pfizer, che dichiarava che avrebbe consegnato all’Unione europea meno dosi di quelle previste per consentire lavori di ampliamento delle sue strutture (e quindi accelerare le consegne a fine lavori). Annunci su ritardi nelle forniture sono poi arrivati anche da Moderna e AstraZeneca. Nel frattempo l’Europa ha iniziato a muoversi con più rapidità nell’assicurarsi forniture nel momento in cui nuovi vaccini davano risultati positivi, ma il ritardo accumulato nella prima fase sarà difficile da recuperare, anche pensando a un’accelerazione nei prossimi mesi.
Il quadro sta evolvendo rapidamente in questi giorni, e la politica unitaria europea comincia a sgretolarsi. Dopo l’Ungheria, che è sempre andata per conto proprio nella campagna, Austria, Danimarca, Polonia e Cechia stanno discutendo la possibilità di muoversi autonomamente per ottenere i vaccini, anche sfruttando prodotti non approvati dall’Agenzia europea per il farmaco come quelli sviluppati da Russia e Cina.
(Foto di Japanexperterna.se su flickr)
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