Una semplice domanda, a volte, può mettere in crisi anche le istituzioni più solide. È una domanda legittima, alla quale il commissario nominato dal governo per l’emergenza, Domenico Arcuri, ha risposto celandosi dietro interpretazioni delle norme ormai superate dalla giurisprudenza. In generale, motivare il diniego di accesso agli atti attraverso cavilli buoni per la discussione tra giuristi non è certo un bel messaggio in tema di trasparenza della pubblica amministrazione. Al di là delle norme che permettono (secondo Arcuri) di non rendere pubblici quegli atti, qual è il principio per cui sarebbe legittimo e utile tenerli segreti? Come si può, in piena sincerità, affermare che sia meglio che i cittadini non abbiano la possibilità di essere informati su come vengono spesi i loro soldi, a quali aziende sono affidati i lavori, come si sono svolte le gare? Sono tutte domande che, in maniera più o meno esplicita, si è posta anche l’associazione Openpolis: «Dove è scritto che i bandi devono essere pubblici? Lo indicano sia il decreto trasparenza che il codice degli appalti». Sulla base di questo, Openpolis ha inviato una formale richiesta di accesso agli atti, in forma di accesso civico generalizzato e di accesso semplice, ma la risposta è stata negativa. Non ritenendo valide le motivazioni portate dalla pubblica amministrazione, è stata inviata una richiesta di riesame, ma dopo pochi giorni è arrivata un’ulteriore risposta negativa, che ribadiva in sostanza le posizioni della prima replica. L’associazione ha ribadito la richiesta di riesame il 31 agosto, specificando stavolta che «in mancanza di una risposta entro i 30 giorni stabiliti dalla legge si procederà al ricorso in via amministrativa davanti alle competenti sedi giurisdizionali ed amministrative indicate dalle norme già citate». Una soluzione, quest’ultima che richiede tempo e risorse che non tutti si possono permettere, e che mette in luce un atteggiamento della pubblica amministrazione che tende a scoraggiare le iniziative da parte di singoli cittadini o comunque realtà piccole, con competenze e risorse limitate.

Perché devono essere pubblici

Resta una domanda senza risposta, nella descrizione fatta fin qui: «Se gli obblighi sono chiari com’è possibile che il commissario non adempia e soprattutto, a fronte di specifiche richieste, si rifiuti?». Una piccola premessa sul diritto di accesso agli atti della pubblica amministrazione prima di procedere. Come spiega Openpolis, le norme sulla trasparenza nel nostro ordinamento hanno generato tre diversi diritti di accesso: «Si genera così confusione tra l’accesso documentale, regolamentato dalla legge 241 del 1990, per cui solo chi ha un interesse legittimo può accedere a determinate informazioni, l’accesso civico semplice, per cui chiunque ha diritto di chiedere il rispetto degli obblighi di pubblicazione specificamente previsti dalle norme (Dlgs 33/2013), e l’accesso civico generalizzato (o Foia, in forza del quale chiunque può accedere a dati e documenti detenuti dalle Pa – anche se non oggetto di specifici obblighi di pubblicazione – nel rispetto di alcuni limiti prestabiliti)». Una confusione normativa purtroppo nota a chi conosce il sistema italiano, e che fa sì che chi deve rispondere alla richiesta sfrutti le ambiguità per sottolineare l’interpretazione che più si avvicina alla risposta che vorrebbe dare. «Nel caso specifico il commissario (così come altre Pa in passato) dice che l’accesso è consentito solo a chi ha un interesse specifico (accesso documentale)». Ma se è così, Arcuri ha dunque la possibilità legittima di rispondere negativamente? «Non più. Perché il 2 aprile 2020 è intervenuto il massimo organo giurisdizionale del Consiglio di Stato, ossia l’Adunanza Plenaria presieduta dal Presidente, per dirimere la questione». La sentenza in questione ha stabilito che «1. il diritto di accesso generalizzato (Foia) si applica sempre e comunque alla materia dei contratti pubblici e riguarda tutti i documenti e le procedure di gara […], 2. tale diritto trova dei limiti solo ed esclusivamente in casi particolari tassativamente previsti dalla legge (segreto, privacy, altro); 3. il diritto di accesso generalizzato (Foia) si aggiunge e, in questo caso, sostituisce l’accesso documentale (interesse legittimo previsto dalla legge 241/1990). Il fatto, cioè, che il codice degli appalti preveda l’accesso documentale non soltanto non esclude quello generalizzato ma (nel caso specifico oggetto della sentenza) il soggetto al quale non si può concedere l’accesso documentale, perché non in condizione di dimostrare un interesse specifico, deve comunque poter accedere uti civis, come cittadino titolare di un diritto di sapere in base al Foia (right to know che si aggiunge al need to know)». Appare chiaro dunque che le basi normative per negare l’accesso non ci sono. E quindi perché perseverare, se non per prendere tempo? A quale scopo, di preciso, se si è certi di avere agito nel pieno della correttezza?

(Foto di Jules Bss su Unsplash)