Perché un momento di silenzio durante una conversazione ci mette a disagio? Secondo un articolo pubblicato su Aeon, un silenzio diventa imbarazzante quando si verifica durante una conversazione in cui qualcuno “dovrebbe” parlare, violando le norme conversazionali non dette. Queste norme dettano regole come il turno di parola e la durata delle pause e, quando vengono violate, possono destabilizzarci, facendoci domandare cosa potrebbe succedere dopo. Tuttavia, non tutti coloro che ignorano le norme costituiscono una minaccia a una conversazione serena: alcuni, come il filosofo David Lewis, preferiscono semplicemente condividere informazioni piuttosto che chiacchierare del più e del meno; altri, come Chris Packham, una persona autistica, trovano frustrante una “chiacchierata senza direzione”. Lewis era noto per la sua capacità di stare seduto in silenzio mentre pensava, un’abitudine che lasciava i suoi interlocutori e interlocutrici alla disperata ricerca di qualcosa da dire. Le culture variano anche in questo: per esempio, i silenzi che sono confortevoli per i giapponesi risultano “insopportabilmente lunghi” per gli statunitensi.
Un aspetto sorprendente del silenzio prolungato è la forte pressione a dire qualcosa che esercita. Le conversazioni possono essere viste come sforzi condivisi, simili alla danza, in cui uno scambio armonioso è fonte di soddisfazione. Quando il silenzio interrompe questo flusso, può sembrare di aver sbagliato un passo, facendo sentire le persone rifiutate ed escluse “dal gruppo”. Questa ansia deriva dall’importanza evolutiva di tale appartenenza. A differenza di altre violazioni delle norme, i silenzi sono particolarmente evidenti, perché non c’è nient’altro che possa distrarre, e possono essere interrotti solamente parlando.
I silenzi, prosegue l’articolo, possono anche essere usati intenzionalmente per comunicare, come nel caso di alcuni politici, che usano spesso delle pause per trasmettere un messaggio. Tuttavia, se manca il contesto, interpretare questi silenzi può essere difficile e causare disagio. Ad esempio, i silenzi di Lewis risultavano “inquietanti” perché non offrivano il contesto per capire che significavano semplicemente che stava pensando.
L’imbarazzo può nascere anche dai nostri silenzi. Potremmo essere che gli altri interpretino male il nostro silenzio, scambiando la timidezza per noia, il che mette a repentaglio la nostra immagine pubblica, ovvero l’idea che desideriamo dare di noi stessi. Oppure, potremmo preoccuparci che il nostro io privato, più rilassato, venga esposto in modo non accurato, come quando si è nervosi durante un appuntamento.
Al contrario, i silenzi confortevoli si verificano quando queste ansie sono assenti. Spesso si verificano con persone che conosciamo bene, come amici o familiari, perché le amicizie sviluppano norme informali che consentono di fare pause più lunghe senza sentire la pressione di dover parlare. In queste situazioni, non c’è l’aspettativa di una conversazione continua e il silenzio non è disturbante, perché non c’è nulla da interrompere. La familiarità fornisce il contesto necessario per interpretare il silenzio di un amico o amica, eliminando la difficoltà di decifrarne il significato. Infine, con gli amici intimi ci preoccupiamo meno di essere fraintesi o di mostrare il nostro io più intimo, perché sappiamo di essere accettati per quello che siamo. I silenzi confortevoli indicano una connessione già consolidata e spontanea, in cui l’ansia di coinvolgimento e comprensione semplicemente non esiste.
(Foto di Giancarlo Corti su Unsplash)
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