È un’esperienza piuttosto comune quella di ritrovarsi invischiati in attività che danno una piccola soddisfazione immediata, ma ci lasciano con la sensazione di avere sprecato del tempo. Smartphone e social network giocano un ruolo importante in questo, ma il problema esisteva anche prima. Alla pandemia si è poi accompagnato il problema della cosiddetta “infodemia”, che ha diffuso nelle persone la necessità di essere continuamente aggiornate su qualsiasi cosa, anche se probabilmente per la vita che fa la maggior parte di noi (tolti i reporter specializzati in breaking news e poche altre categorie) sarebbe sufficiente un’esposizione minore, ma più “attenta”, alle notizie.

Come ha scritto Arthur Brooks sull’Atlantic, «l’americano medio ha passato tre ore e 43 minuti al giorno a guardare la TV nel primo trimestre del 2020, secondo dati Nielsen. È molto tempo, ma comunque meno delle tre ore e 46 minuti che le persone hanno passato fissando il proprio smartphone». Certo dipende da cosa si fa con lo smartphone: lo si può usare anche per leggere lunghi e approfonditi articoli, ma sospettiamo che mediamente lo si usi per attività molto meno “produttive”. Prima di proseguire bisogna mettersi d’accordo su quest’ultimo termine. In molti articoli che criticano un approccio attento all’uso del tempo la parola “produttività” viene attaccata perché ricondotta al suo significato più “capitalistico”: produttività come efficienza, raggiungimento di obiettivi, ecc. In realtà qui si vuole intendere più che altro l’intenzionalità di ciò che si fa. Se decido che ogni giorno voglio leggere almeno due capitoli di un certo romanzo e mi riservo il tempo per farlo, sto agendo in maniera produttiva (intenzionale). Se non ci riesco perché mi perdo, di volta in volta, dietro a una serie di video su YouTube, o a esplorare i feed di persone famose su Instagram, allora sto perdendo tempo.

Come scrive lo stesso Brooks, «non sto sostenendo che le attività non lavorative siano necessariamente una perdita di tempo; al contrario, ci sono prove del fatto che il tempo speso a sognare a occhi aperti e a godere di attività non lavorative può non solo renderci più felici, ma anche portare a migliori prestazioni lavorative e a una maggiore creatività».

Tendiamo a percepirci come esseri razionali, ma se così fosse il problema di cui stiamo parlando non si verificherebbe. Certo le nuove tecnologie non aiutano, essendo progettate apertamente per tenerci il più possibile agganciati a sé. Spesso infatti ci si scaglia (giustamente) contro le pratiche messe in atto dalle grandi compagnie tecnologiche per raccogliere i nostri dati e usarli nei modi più vari. Si perde però di vista il fatto che la priorità non è solo fare in modo che Facebook, Google e altre aziende smettano di monitorare ogni nostra azione, ma anche liberare noi stessi dall’abitudine di usare i loro servizi in maniera così intensiva.

Anche su questo ci sono dati che confortano ciò che scriviamo. «Prendiamo il caso dello smartphone – scrive Brooks –: è comodo e utile come strumento. Eppure, nonostante i suoi benefici, in un sondaggio del 2015 quasi un proprietario di smartphone su tre ha detto è più un “guinzaglio” che una fonte di “libertà”. Questo guinzaglio ha gravi conseguenze: gli psicologi hanno collegato l’uso eccessivo dello smartphone alla “dipendenza digitale”, che a sua volta può portare a solitudine, ansia e depressione […] Anche se non arriva a essere una dipendenza, qualsiasi perdita compulsiva di tempo che non ci rende più felici a lungo termine – che si tratti di solitari o di video di gattini – minaccia il nostro benessere». Come uscirne?

Pianificare il proprio tempo

Brooks, citando il libro Deep Work del ricercatore Cal Newport, propone di «non prendere le decisioni su cosa fare del nostro tempo nel momento in cui iniziamo un’attività, quando il nostro processo decisionale potrebbe essere distratto dalla ricerca di soddisfazioni a breve termine». Un po’ come quando si dice «Ok, guardo quest’ultimo video che mi hanno inoltrato su WhatsApp e poi comincio la mia lettura», e intanto passa mezz’ora. Newport propone di suddividere le proprie giornate in blocchi di tempo, programmando in anticipo come li si userà, mettendo l’accento sull’importanza di farlo soprattutto per le ore lavorative. Farlo anche per il tempo libero, come suggerisce Brooks, rischia di provocare ulteriore ansia. Si può però pianificare il tempo libero in maniera più leggera, per esempio decidendo in anticipo una o due attività che ci impegniamo a fare nel fine settimana.

Darsi delle metriche giornaliere

Un altro modo per gestire il tempo non lavorativo è scrivere una lista di cose a cui diamo valore e che vogliamo fare tutti i giorni, o un certo numero di volte alla settimana (leggere, fare esercizio fisico, passare del tempo con amici o familiari), e poi tenere traccia del fatto che le facciamo. Può essere una semplice checklist su un’agenda, non serve per forza chissà quale app. Il solo fatto di scriverlo e di tracciare le nostre “prestazioni” ci darà motivazione. La cosa può tornare utile anche per gestire attività meno costruttive. Per esempio, si può decidere di concedersi mezz’ora di YouTube per due volte alla settimana. In questo modo anche quell’attività avrà una sua misura e un suo spazio, e al contempo non ci sentiremo privati di un momento di leggerezza a cui magari siamo affezionati. E chissà, magari a un certo punto scopriremo che possiamo felicemente farne a meno.

(Photo by Jon Tyson on Unsplash)

Noi ci siamo

Quando è nata Avis Legnano i film erano muti, l’Italia era una monarchia e avere una radio voleva dire essere all’avanguardia. Da allora il mondo è cambiato, ma noi ci siamo sempre.

Vuoi unirti?

Privacy Preference Center