Nella notte di martedì 22 maggio è morto lo scrittore statunitense Philip Roth, universalmente riconosciuto come uno dei più grandi del nostro tempo. Per ricordarlo, riportiamo l’ultima intervista a un periodico italiano, pubblicata il 3 settembre 2017 su La Lettura e realizzata da Livia Manera.
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In Why Write? (Perché scrivere?), nelle librerie americane dal 12 settembre, lei afferma che «uno scrittore ha bisogno dei suoi veleni. E un antidoto al veleno è spesso un libro». Tra i suoi, di veleni, si potrebbero annoverare gli attacchi che ha ricevuto fin dal principio della sua carriera. E tuttavia — pensando agli anni Sessanta — Norman Mailer era uno scrittore che andava a cercare la rissa, lei sembra essersi ritrovato al centro di infiammate polemiche senza volerlo. Di certo quello che ha scritto ha dato fastidio a molta gente. Ma ha anche trovato una motivazione in quella resistenza. Con il senno di poi, pensa che la rabbia sia la migliore amica di uno scrittore?
«No, la rabbia è probabilmente la peggior nemica di un romanziere. Qualunque cosa offuschi la mente di un romanziere è sua nemica, e c’è forse qualcosa di più accecante della rabbia? Lei ha ragione a dire che all’inizio non ero uno che andasse a cercarsi la rissa. Né ho trovato solo avversari all’epoca del mio esordio — il mio primo libro ha ricevuto l’apprezzamento di alcuni dei critici più seri in circolazione e ha vinto più di un premio. Ma ha anche dato, come dice lei, fastidio a una porzione significativa del mio pubblico ebreo, e la virulenza della loro reazione mi ha preso in effetti davvero di sorpresa, quando avevo ventisette anni. Avevo orrore dell’antisemitismo; perciò non era gradevole essere etichettato come antisemita da questi lettori ebrei fuori di sé».
Pastorale americana può essere interpretato come uno spartiacque, il momento in cui a sessant’anni ha finalmente deciso di affrontare i temi politico-sociali da cui aveva preso le distanze quando, negli anni Sessanta, ha scritto che di fronte a una realtà americana che superava ogni limite, «la povera immaginazione di un romanziere» risultava umiliata. Che cosa pensa di avere perso, e guadagnato, nel diventare uno scrittore più maturo?
«Ho guadagnato la maturità, che per me, come romanziere, ha voluto dire una consapevolezza delle dimensioni più profonde del romanzo stesso. Ho scoperto che il potere del romanzo risiede nella ricchezza delle diverse parti che lo compongono. O forse quello che ho scoperto sono risorse dentro di me che solo il passaggio del tempo — gli anni e anni dedicati a scrivere e a vivere — poteva rendere accessibili».
Che impatto crede di avere avuto sulla letteratura e sull’America?
«È una valutazione che preferisco lasciare ad altri».
In Why Write? lei ha pubblicato una lettera della scrittrice Mary McCarthy, molto critica nei confronti del suo romanzo La controvita. Ha anche scritto che ci sono state stroncature che le hanno cavato il sangue e scatenato la sua furia. Sono reazioni comprensibili, ma mi è venuto da pensare: esiste la possibilità che uno scrittore possa imparare qualcosa di utile da una recensione negativa? A lei, è mai successo?
«Le recensioni non sono scritte per lo scrittore. Sono scritte per i lettori. Che una recensione sia favorevole o sfavorevole, è una cosa che davvero non tocca quel processo lungo, arduo e intricato attraverso il quale un romanzo prende forma. Nel corso di un singolo giorno di lavoro, uno scrittore alle prese con un romanzo compie migliaia di scelte e queste scelte sono decise da migliaia di altri fattori, eccetera. Il lavoro del recensore, non importa quanto dotato, si svolge in un’altra sfera».
In questo libro lei dice che «a volte, quando si inizia a scrivere un romanzo, l’incertezza nasce non tanto dal fatto che la scrittura venga con difficoltà, ma dal contrario, dal fatto che non venga con abbastanza difficoltà». Quest’abitudine a cercare una resistenza — nelle sue parole, questo andare in cerca di «guai» — è rimasta invariata, nel corso degli anni, o è cambiata?
«Semmai, direi che la sfida negli anni si è fatta più intensa. Invece di diventare più facile, con la crescita e la maturazione del proprio talento, la battaglia con il proprio materiale si espande — o almeno questa è stata la mia esperienza. Più cose sapevo, più difficile diventava».
Insomma, alla fine, perché scrivere? Il suo libro offre una risposta lunga 452 pagine. Come le ho detto al telefono, è il libro più intelligente — e spesso esilarante — che abbia letto da anni. Ma vorrei girarle la domanda che ha scelto per il suo titolo, e avere una riposta da una persona che può guardare indietro a sessant’anni di lavoro…
«Il meglio che posso dire è che ho scritto perché volevo vedere se ne ero capace».
E ora che ha smesso, com’è non essere uno scrittore attivo? Come valuta l’esperienza di separare la sua vita dalla scrittura?
«Io non sono più molte cose che una volta ero, e non sono più capace di fare una quantità di cose che una volta facevo. A ottantaquattro anni, smettere diventa un modo di vivere. Delle cose che non ho più, faccio a meno».