
Il piano di investimento presentato da Jean-Claude Juncker, presidente della Commissione europea, promette di mobilitare risorse per 315 miliardi di euro e di innescare così la ripresa dell’economia del continente. Questi 315 miliardi sarebbero frutto di un investimento iniziale di 21 miliardi, formato da 16 miliardi provenienti dal bilancio Ue e 5 dalla Banca europea per gli investimenti (Bei). Siamo insomma al tentativo di moltiplicazione del pane e dei pesci, che sappiamo bene essere riuscito a uno solo finora. Juncker è lo stesso che ha avallato favori fiscali alle più importanti multinazionali quando era primo ministro in Lussemburgo (ne abbiamo parlato qui) e che ha proposto il trasferimento della responsabilità delle decisioni in merito ai farmaci (tra cui gli emoderivati) dal Direttorato generale per la salute e i consumatori a quello per l’Impresa e l’industria (qui un nostro articolo).
Un personaggio che sta nella politica ma che sembrerebbe ragionare molto più da rappresentante del mondo dell’impresa privata e del business finanziario, piuttosto che da servitore (un tempo si diceva così) delle istituzioni (la sua nomina a capo della Commissione va forse vista proprio come un’ulteriore conferma del carattere tecnico-burocratico che l’Ue incarna sempre di più). Le sue parole confermato tale ipotesi, dato che tra i “pilastri” del suo piano di investimenti c’è il fatto che «non è compito dei politici fare progetti ma degli esperti che hanno le competenze giuste e valuteranno i progetti sulla base delle potenzialità di crescita e nuova occupazione». Buono a sapersi, forse faremmo prima a eliminare del tutto governi e Parlamenti, lasciando tutto in mano a tecnici e banche, che finora hanno dimostrato competenza e responsabilità nel loro intervento sul mercato (siamo molto ironici, sia chiaro).
Il sito internet Sbilanciamoci.info ha pubblicato un’analisi del piano Juncker, che innanzitutto smonta le ambizioni stesse ambizioni del presidente della Commissione: «L’aumento di occupazione previsto per 1,3 milioni di persone rappresenterebbe, ad esempio, poco più di una goccia nel mare dei bisogni; a metà 2014 i disoccupati si contavano in effetti nell’ordine di circa 25 milioni di unità nell’Unione Europea e di più di 18 nella sola eurozona. Questo senza contare le persone che, scoraggiate, non cercano più un lavoro e quelle che lavorano part-time, ma vorrebbero lavorare a tempo pieno (altri 15 milioni di unità in tutto?)». Visto così si tratta in effetti di un obiettivo piuttosto modesto. Ma è il meccanismo che porta dai fondi di partenza alla previsione di attrazione di investimenti a lasciare maggiormente perplessi. Dei 16 miliardi che dovrebbero essere forniti dal bilancio Ue, «per 8 miliardi si tratta in realtà di fondi distolti da altri impieghi produttivi e per il resto solo di impegni eventuali di pagamento. Cose simili si potrebbero dire per la Bei. Quindi vecchio vino in bottiglie nuove, come dicono nei paesi anglosassoni».
Attenzione ai passaggi successivi, perché da questi 21 (piuttosto fittizi come abbiamo visto) si arriva in due passaggi a 63 e poi a 315: «I 21 miliardi verrebbero incanalati in un “fondo europeo per gli investimenti strategici” (Feis) e con la garanzia di tali risorse la Bei dovrebbe ricercare fondi sul mercato per 63 miliardi. Tale somma dovrebbe poi servire come volano per raccogliere alla fine cofinanziamenti privati e pubblici sino all’importo di 315 miliardi; essi verrebbero, in parte almeno, garantiti dal fondo dei 21 miliardi, le cui risorse si configurerebbero nel pacchetto dei finanziamenti ai singoli progetti come dei debiti subordinati. Alla fine si avrebbe così una leva di circa 15 volte, un’ipotesi di alta acrobazia finanziaria degna forse di un Madoff».
La battuta chiama la risata, ma c’è poco da stare allegri se queste sono le ricette anti-crisi che dovrebbero cambiare qualcosa rispetto alla cosiddetta “austerità espansiva” che sta conducendo l’Europa verso la recessione. Resta poi una domanda di fondo: se anche dovessero arrivare gli investimenti sperati, chi garantisce che gli interventi andrebbero a favore degli Stati del Sud, maggiormente in difficoltà a livello economico e di occupazione? In altre parole, si prevede di fare partecipare gli Stati alla stesura di un piano di interventi o si lascerà che la “mano invisibile” del mercato li distribuisca dove meglio crede?