Tagliare le tasse, ridurre la spesa pubblica. Questi, da alcuni decenni ormai, sono i due obiettivi che si propone di realizzare ogni governo che si è succeduto alla guida dell’Italia. Il problema è sempre trovare la formula giusta, l’approccio migliore per fare in modo che da un lato l’economia sia spinta a crescere grazie a un regime fiscale non troppo opprimente, e dall’altro i cittadini abbiano la garanzia di poter godere di servizi e ammortizzatori sociali adeguati a ciò che viene trattenuto dai loro guadagni. Se dovessimo sintetizzare, dovrebbe essere più o meno questo il senso delle riforme di cui da anni si parla e di cui ancora poco di concreto si è visto. Da Mario Monti in poi, l’Italia ha intrapreso la strada dell’impegno al rispetto dei parametri imposti dall’Unione europea, concentrandosi però molto di più sull’incrementare gli incassi della pubblica amministrazione (alzando le tasse, promuovendo campagne contro l’evasione fiscale), piuttosto che sul contenimento della spesa. Sempre in nome dell’Europa.
Ma quanto contano i vari trattati e “patti” stipulati con gli altri Paesi Ue? Poco, secondo Roberto Perotti: «Se l’Italia sfora il 3 per cento del disavanzo, o non riduce il rapporto debito/Pil del 5 per cento l’anno, gli altri paesi non possono mandarle i carri armati. Qualche burocrate della Commissione avrà il suo giorno di gloria bacchettando il governo italiano, qualche politico tedesco o finlandese rilascerà una dichiarazione, e finirà tutto lì. Chiunque abbia letto il testo dei trattati attentamente sa che non c’è nient’altro di importante che può succedere (eccetto, alla fine di una trafila lunghissima e che non verrà mai intrapresa, una multa massima dello 0,1 per cento del Pil)».
L’attuale governo sembra invece voler prendere una strada un po’ diversa: abbassare le tasse (almeno alcune, alzandone altre) e rimandare a un secondo momento il taglio della spesa pubblica. Approccio pericoloso, perché rischia di dare un iniziale senso di alleggerimento ai cittadini che poi, se non si avvia con efficacia una riduzione della spesa, si ritroveranno schiacciati dalle conseguenze in una fase successiva. L’unica strada, che indica anche Perotti, è procedere in parallelo con una riduzione progressiva della pressione fiscale e un abbassamento della spesa pubblica. Con una visione ampia, che non punti ad assestare “colpi” di grande impatto ma non sostenibili economicamente sul lungo periodo. Il pericolo è infatti quello di farsi tentare dalla mossa spregiudicata di tagliare subito 30 miliardi di tasse, rimandando a data da destinarsi la copertura. Mossa che ha un sapore molto “latino” (area che notoriamente non è caratterizzata da grande stabilità politica): «I paesi sudamericani negli anni ’80 e ’90 erano maestri in queste operazioni: ogni nuovo presidente, appena eletto, le faceva, e poi le ripeteva a un anno dalla fine del mandato per cercare di essere rieletto». Meglio sarebbe procedere in maniera progressiva, introducendo però cambiamenti strutturali e sostenibili nel bilancio dello Stato.
Il presidente del Consiglio farebbe bene a considerare attentamente i suggerimenti del commissario alla spending review Carlo Cottarelli, che col suo team sta individuando diverse aree da cui sarebbe possibile trarre un risparmio. Per esempio gli enti locali, sorta di cellule impazzite che gestiscono autonomamente i fondi pubblici, senza un sistema di centri d’acquisto o di prezzi standard. Altro tema centrale è la soppressione degli enti inutili: «“Se guardiamo al secondo o terzo livello di partecipazione – ha spiegato Cottarelli – il numero di imprese è ben superiore agli 8mila. Sono 10mila e anche di più” . L’universo, ha aggiunto, “è molto variegato” in particolare per quell’80 per cento che non copre i servizi principali, “si va dalle terme alle farmacie, dalla produzione di prosciutti alla lavorazione delle uova”. Tra l’altro, ha aggiunto, “un terzo ha meno di 20 addetti”». Entro luglio dovrebbe arrivare il piano di razionalizzazione. Speriamo che qualcuno lo legga.