Della cosiddetta primavera araba, la serie di rivolte e manifestazioni di piazza che si sono svolte nei mesi scorsi nella fascia di Paesi situati tra il Maghreb e il Medio Oriente, si è scritto di tutto. C’è chi, agli albori delle proteste, vi riponeva grandi speranze. Parlando di Tunisia ed Egitto, Tahar Ben Jelloun, scrittore marocchino, scriveva che «Queste rivoluzioni di oggi avranno almeno un vantaggio: più niente sarà come prima. Quanto agli altri Stati arabi in cui sussistono gli ingredienti affinché qualcosa si muova e ci si ribelli, credo che riformeranno il loro sistema e saranno più vigili sul rispetto dei diritti della persona. Il cittadino non sarà più un soggetto sottomesso ad un potere arbitrario e sprezzante; diventerà un individuo con un nome, una voce e i suoi diritti» (da “La rivoluzione dei gelsomini – Il risveglio della dignità araba”). E in effetti i due Paesi africani sono gli unici, al momento, in cui il vecchio rais sia stato deposto (per un quadro completo, consigliamo l’infografica elaborata da Linkiesta). Ma il grande cambiamento sperato, anche dove sembrava alle porte, alla fine non c’è stato. Gaetano La Pira, nella sua analisi, sempre su Linkiesta, parla infatti di rivoluzione mancata, seppure non spenta: «Al Cairo, sei mesi dopo la cacciata di Hosni Mubarak, non c’è traccia di primavera. I manifestanti di Piazza Tahrir sono tornati in strada e hanno promesso che andranno avanti malgrado le timide promesse di riforma annunciate dal primo ministro. Denunciano la lentezza delle riforme, chiedono processi più rapidi contro gli esponenti dell’ex regime e, soprattutto, sicurezza per tutti e giustizia per le quasi mille persone uccise». Al momento, però, le condizioni economiche del Paese sono peggiorate (crescita prevista per il 2011 dimezzata, così come il numero di turisti che hanno visitato il paese tra gennaio e maggio). Jean Pisani-Ferry* si interroga e auspica la possibilità che questo momento di rottura possa tradursi in una nuova caduta del muro di Berlino: «All’inizio i vecchi paesi d’Europa erano paralizzati, intimoriti dall’ignoto e preoccupati per l’immigrazione, poi colsero appieno l’opportunità che la storia offriva loro». Proseguendo nel suo ragionamento, individua però gli ostacoli allo sviluppo dell’area: «Economie in cui lo sviluppo è ostacolato dalla burocrazia, da rendite monopolistiche -spesso il risultato di clientelismo politico o nepotismo- e da mercati del credito sclerotici».

Quanto agli altri Paesi interessati dalle agitazioni: Siria e Yemen sono alle prese con rivolte represse nel sangue e il rischio di una implosione interna; le ricche monarchie del Golfo reggono; le monarchie non petrolifere, Marocco e Giordania, hanno optato per le riforme preventive per evitare le piazze (in Marocco Maometto VI ha concesso una nuova costituzione dai principi più democratici e promosso la lingua berbera a idioma nazionale accanto all’arabo; in Giordania Abdullah II si è detto d’accordo con la richiesta di far nominare e sfiduciare i futuri primi ministri al Parlamento e non al re). Le rivolte, quindi, hanno avuto esiti imprevedibili, che si sono spinti anche al di fuori dei confini in cui si sono svolte. I passi avanti sono ancora timidi, e continueranno a esserlo finché i vecchi regimi resteranno arroccati alle rispettive poltrone (e rispettivi troni), provando a calmare le folle a suon di concessioni. Dove i rovesciamenti si sono avuti, si è dimostrata la debolezza di una protesta non organizzata, che ha lasciato spazio, una volta destituito il potere in carica, a nuove forme di supremazia, quale quella militare. Come l’Egitto, in cui vige quello che Giorgio Agamben ha definito stato d’eccezione, ossia «la risposta più immediata del potere statutale ai conflitti interni più estremi, con l’instaurazione di una guerra civile legale, che permette l’eliminazione fisica non solo degli avversari politici ma di intere categorie di cittadini che, per qualche ragione, non siano integrabili nel sistema politico». Attendiamo la prossima stagione, l’autunno, per vedere da che parte spingerà l’aria di rinnovamento che sembra spirare nell’area araba, sperando che la direzione sia sempre quella di un miglioramento delle condizioni di vita della popolazione, e non dei pochi che ne gestiscono le risorse.

* Direttore di Bruegel, un think tank economico internazionale, professore di economia all’Université Paris-Dauphine e membro del Consiglio di analisi economica del Primo ministro francese.