Il 31 luglio ricorrevano i cento anni dalla nascita di Primo Levi. Del grande scrittore torinese si conosce soprattutto la testimonianza dal campo di concentramento di Auschwitz riportata in Se questo è un uomo. Ma Primo Levi ha scritto molte altre cose, prima e dopo quella terribile esperienza. Senza per questo abbandonare la sua occupazione di chimico, alla quale si è dedicato fino al raggiungimento della pensione. Marco Belpoliti nei mesi scorsi ha pubblicato una serie di ritratti, basati sulle fotografie che di Levi sono state scattate nel corso degli anni. Prendiamo come spunto alcuni stralci di queste descrizioni, per cogliere alcuni aspetti della complessità dell’autore.
Normalità
«“l’amare il proprio lavoro (…) costituisce la miglior approssimazione concreta alla felicità sulla terra”. Si sta girando verso un interlocutore che gli parla. Tiene in mano la birra con la destra e un bicchiere di plastica con l’altra. Niente di più normale di così: un signore con i capelli bianchi e il pizzetto d’alpino. Uno qualunque, uno come noi. Questa è la grande qualità di questo scrittore, rivelatosi con un libro inizialmente letto da poche persone, perlopiù a Torino, dove risiedeva, e dove ha vissuto gran parte della sua vita facendo il chimico. Sono le persone comuni come lui, persone che in apparenza non hanno nulla di straordinario, come mostra questa fotografia, a salvarci. Uomini e donne la cui intelligenza e sensibilità a volte diventa una poesia, un racconto, un romanzo. La normalità di Primo Levi è la sua forza, anche se sappiamo che non lo era. Ci piace però continuare a crederlo. Per lui, per noi».
Felicità
«La felicità è uno stato su cui Levi ha riflettuto a lungo e che ci ha consegnato in un passo memorabile di Se questo è un uomo. Nel vagone che lo conduce ad Auschwitz postula l’inesistenza della felicità perfetta, così come del suo contrario, l’infelicità perfetta; ci dice che la vita umana non conosce questi stati-limite e che le inevitabili cure materiali distolgono da ogni felicità duratura, e insieme anche da un’infelicità che sia tale. Questo è in definitiva un bene, scrive, perché entrambi rendono frammentaria la sventura che ci sovrasta e perciò sostenibile la sua consapevolezza».
Doppia natura
«Il centauro, animale mitologico, è stato assunto dallo scrittore torinese come un emblema a partire da un racconto, Quaestio de centauris, pubblicato nel volume di racconti Storie naturali (1966). Natura doppia dell’uomo-cavallo e doppia identità di Levi: scrittore e chimico, testimone e scrittore, italiano ed ebreo. Due nature nella medesima persona. Un dualismo continuato per decenni, dopo l’esordio del 1947. Ne soffriva Levi? Probabilmente sì, dato che due identità insieme creano, come nel caso di Trachi, il protagonista del racconto, vari problemi. La natura anfibia l’ha costretto a destreggiarsi tra due opposti; tuttavia Levi non li ha sentiti come alternative secche, piuttosto come componenti della propria personalità di uomo e scrittore. In un’intervista del 1963, subito dopo la vittoria al Premio Campiello con La tregua, dichiara: “Io sono diviso in due metà, sono un tecnico, un chimico. Un’altra invece, totalmente distaccata dalla prima, è quella nella quale scrivo, rispondo alle interviste, lavoro su esperienze passate. Sono due mezzi cervelli. Una spaccatura paranoica”. Che quello della scissione in due sia un tema che ritorna spesso nella sua opera, in particolare nei racconti, è evidente».
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