In Italia, spesso, sembra più importante trovare qualcuno a cui dare la colpa, piuttosto che capire dove stanno le radici dei problemi che ci trasciniamo. Lo si è visto anche durante la pandemia. Lo scontro politico e mediatico si è subito concentrato su chi in quel momento si trovava (e si trova) a gestire un evento a cui nessuno era preparato. Sono stati fatti degli errori, sono state prese delle decisioni sbagliate, ci sono delle responsabilità ed è giusto chiedere che a un certo punto si facciano delle inchieste e si individui chi deve pagare per le proprie azioni. Ma questo approccio tende spesso a perdersi nella ricerca del colpevole più immediato, del capro espiatorio, al quale addossare tutta la colpa e sentirsi in qualche modo sollevati dall’averlo punito. Il risultato è che chi ha responsabilità maggiori, perché nel corso di anni ha contribuito a determinare le condizioni affinché si verificasse l’emergenza, finisce spesso per non essere tirato in ballo. Troppo complesso indagare, spiegare, verificare gli eventi nella loro complessità. Al limite ci penseranno gli studiosi, o la magistratura con i suoi tempi lunghi. Il dibattito pubblico ha bisogno di soluzioni rapide e semplici, o almeno è così che ci si tende a muovere negli ultimi anni, contribuendo a creare questo bisogno di giustizia sommaria nei cittadini. Poco si è parlato, rispetto all’enormità della cosa, che l’Italia avesse un piano pandemico che veniva continuamente riproposto identico dal 2006, fino alla sua ultima edizione del 2017. Il risultato è che nel 2020, quando (dopo un paio di “partenze false” con la SARS-1 e l’H1N1) in Italia è arrivata davvero una pandemia, avevamo un piano aggiornato a 14 anni prima. È un fatto gravissimo, costato vite umane, su cui anche l’Organizzazione mondiale della sanità, dopo avere sottolineato l’informazione in un suo report, ha cercato di soprassedere.
L’epidemiologo Eugenio Paci, su Scienza In Rete, torna sull’argomento per fare alcune riflessioni sul contesto italiano. Una domanda in particolare ci ha colpiti nel suo articolo: «Un nuovo, effettivo, piano pandemico nazionale poteva nascere in questo clima emotivo e di aggressività mediatica, in assenza di una situazione di emergenza? La preparazione alla pandemia, se deve essere efficace e pronta al bisogno, richiede non solo investimenti per formazione e organizzazione, ma spesa senza risultati. Bandire e assegnare gare, come nel caso Covid-19, per DPI, mascherine, formazione al tracciamento, innovazione tecnologica e vaccini: tutto quello che oggi è accentrato sul Commissario Arcuri, persona di fiducia del Governo, e che, data la emergenza pandemia, si realizza in un clima di “prima si fa, poi si critica e nel caso si persegue legalmente”. Le critiche ci sono state, ma niente a che vedere con la guerriglia mediatica cui questi due decenni ci hanno abituati». È purtroppo un grosso tema in Italia, dove in quanto a gestione del rischio (non solo sanitario ma anche sismico, idrogeologico, ecc.) non brilliamo, e non certo dal 2020. Abbiamo denunciato molte volte l’eccessivo ricorso a una gestione commissariale delle emergenze, in ogni ambito. Non avere un piano si traduce in minore trasparenza, maggiore discrezionalità da parte dei commissari, mancanza di tempo per fare le scelte e quindi maggiori costi e minore efficacia. «Agire su questi temi di preparazione (preparedness) – scrive Paci – necessita, non solo in Italia, di un quadro di condivisione politico-emergenziale alto e anche che i media comprendano di cosa si sta discutendo e non indulgano in campagne mediatiche come quelle che li hanno caratterizzati in questi anni. La fiducia è essenziale, quanto la critica. L’intreccio tra azione della magistratura e rilancio mediatico, come si è realizzato in questi anni, è assolutamente paralizzante».
Tornando all’ambito sanitario, Paci sottolinea un tema su cui ci siamo soffermati recentemente, ossia la governance del sistema sanitario italiano. Condividiamo pienamente le considerazioni dell’autore, che toccano temi con i quali anche noi di Avis ci scontriamo quotidianamente: «Non si tratta solo di risorse, di certo ridotte rispetto alle aspettative, ma soprattutto di mancanza di rinnovamento tecnico, confusione politico-istituzionale e predominio di posizioni corporative. La riforma dell’istituto Superiore di Sanità, che pure era ormai necessaria, ha creato negli scorsi anni molti contrasti, soprattutto nel settore della gestione della sorveglianza epidemiologica. Al di là dei motivi specifici degli scontri, tale riforma non ha in ogni caso costituito l’avvio di una nuova struttura complessiva di governance. […] Non si è, in tanti anni, affrontata in nessun modo la questione del rapporto Stato-Regioni, che non è solo questione costituzionale legata al Titolo V, ma anche inconsistenza delle reti tecnico-professionali, uno strumento operativo e di gestione cui la struttura della Conferenza Stato-Regioni non può bastare. La mancanza di una leadership di sanità pubblica, con forte autonomia e qualificazione a livello professionale e in grado di autorevolmente interagire con la politica nella gestione della pandemia, si è pesantemente sentita nella crisi Covid-19. C’è qualcosa nella conflittualità esasperata di questi anni in Italia che sembra più il portato di una stagione politica – e mediatica – che della sostanza tecnica, scientifica e professionale che deve informare una azione di sanità pubblica».
Col sangue si fanno un sacco di cose
Le trasfusioni di sangue intero sono solo una piccola parte di ciò che si può fare con i globuli rossi, le piastrine, il plasma e gli altri emocomponenti. Ma tutto dipende dalla loro disponibilità, e c’è un solo modo per garantirla.