Se non fosse per la mancanza di fondi, la ricerca italiana godrebbe di ottima salute. Questa paradossale ovvietà è meno banale di quanto possa sembrare, e potrebbe sintetizzare ciò che racconta il matematico Giuseppe Mingione al Corriere della sera. Anche se non se ne parla molto sui giornali (si sta cominciando giusto ora, grazie proprio a personaggi come Mingione), all’interno dell’università italiana è in corso una forma di “protesta civile” da parte di una frangia di professori che si oppone al sistema di Valutazione della qualità della ricerca (Vqr). Questo strumento, che nella sua prima fase ha valutato l’attività di ricerca delle università tra il 2011 e il 2013, è ora in fase di aggiornamento per comprendere anche i dati relativi al 2014.

Da questo indice dipenderanno i futuri finanziamenti da parte dello Stato per la prosecuzione delle attività di ricerca. L’ottica è quella della tanto sbandierata “meritocrazia”, che porta con sé una serie di significati contraddittori che spesso si tende a trascurare (ne abbiamo parlato qui). In sostanza, per essere valutato, ogni docente dovrà presentare una selezione delle proprie pubblicazioni di più alto profilo edite tra il 2011 e il 2014. l’Anvur (Agenzia nazionale di valutazione del sistema universitario e della ricerca) si occuperà poi, attraverso un complesso algoritmo che considera anche il numero di citazioni delle ricerche su riviste scientifiche, di valutare pubblicazione, anche sulla base di quanto accade all’estero. Sono proprio i criteri scelti ad aver suscitato le perplessità e le proteste di una parte dei docenti, che non si oppongono alla valutazione in sé, ma al modo in cui la si sta facendo. «In questi quattro anni ho prodotto 16 lavori di prima fascia (il massimo per la Vqr) – spiega Mingione –. Perché devo limitarmi a presentarne due? È come se durante una partita di calcio un giocatore venisse messo in panchina dopo che ha segnato due gol».

La contestazione riguarda anche il fatto che si vogliano confrontare i risultati dei ricercatori italiani rispetto a quelli internazionali, ignorando il fatto che all’estero i fondi pubblici investiti nella ricerca sono molti di più, e dunque è inevitabile il divario. Nonostante questo, i nostri studiosi riescono a tenere il passo con l’estero, e per questo va dato loro grande merito: «“È illogico pretendere di valutare la ricerca su standard internazionali quando il livello dei fondi è da Terzo Mondo”. Solo negli ultimi cinque anni (dal decreto Tremonti del 2009) il Fondo di finanziamento ordinario ha subito una sforbiciata pari a 800 milioni di euro, passando dallo 0,49 per cento del Pil allo 0,42 per cento, contro l’1 per cento di Francia e Germania. La spesa (pubblica e privata) per la ricerca è pari all’1,3 per cento del Pil contro una media europea del 2 per cento. Eppure a parità di soldi spesi i nostri ricercatori pubblicano più articoli dei loro assai più ricchi colleghi e vengono citati di più». Il 21 gennaio, sempre dalle pagine del Corriere, interveniva il docente di Etica sociale a Roma Tor Vergata Stefano Semplici: «La protesta contro la Vqr che si sta diffondendo nelle università italiane non è l’azione corporativa di professori che rifiutano di essere valutati. Sono i soldi dei cittadini a mantenere la libertà della scienza e del suo insegnamento e i cittadini hanno il diritto di sapere che questi soldi sono spesi bene. Questa protesta è anche responsabile, perché non ha colpito e non colpisce gli studenti».

La questione è solo apparentemente “di settore”, visto che dalla ricerca, in prospettiva, dipendono molti aspetti delle nostre vite, da quelli medici a qualsiasi altro ambito della vita. Per completezza, aggiungiamo che la protesta contro il Vqr è stato utilizzata anche come strumento da parte dei professori per protestare contro la sospensione degli scatti di anzianità nei loro stipendi, un diritto negato che offende ulteriormente la dignità del loro lavoro.

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