La procrastinazione è una forma di autolesionismo. Si potrebbe sintetizzare così il parere della ricerca psicologica sull’argomento. Quella deriva che ci porta a rimandare costantemente le cose che sappiamo di dover fare, e a riempirci di piccole altre faccende di poca o nessuna importanza (almeno non in quel momento), è legata alla gestione dell’umore, non del tempo.
Non si risolve con un’app
Uno spot di uno dei primi smartphone recitava “There’s an app for that”, intendendo che, qualunque cosa vi venga in mente di fare, c’è una app che vi aiuta a farlo. In effetti non mancano nei vari store le soluzioni pronte all’uso, che promettono di aiutarvi a gestire con efficienza le vostre giornate. Solo che il problema comincia molto prima, e ha a che fare con l’umore. Quando procrastiniamo, fa notare Charlotte Liebermann sul New York Times, non solo siamo consapevoli del fatto che stiamo evitando di occuparci della cosa a su cui dovremmo concentrare gli sforzi, ma sappiamo anche che si tratta di una pessima idea. Eppure lo facciamo lo stesso. La procrastinazione è un fatto totalmente irrazionale: sappiamo che avrà conseguenze negative, eppure le andiamo incontro. «Le persone – spiega Fuschia Sirois, professoressa di psicologia all’università di Sheffield – entrano in questo circolo irrazionale perché non riescono a gestire i sentimenti negativi che attribuiscono a una certa faccenda da portare a termine». Certi compiti provocano noia, ansia, insicurezza, frustrazione, risentimento, mancanza di fiducia in se stessi. Così, siccome non riusciamo a gestire questa serie di emozioni, aggiriamo il problema facendo qualcos’altro. Non necessariamente qualcosa di inutile o frivolo, intendiamoci. Ci si può perdere in video di cucina su YouTube, ma anche in impegnate letture di saggi di geopolitica. Nessuna delle due cose è inutile, anche se impegna la mente a livelli molto diversi. Ma si tratta di tempo perso, se il nostro obiettivo a lungo termine è, per esempio, portare avanti la tesi di laurea, o scrivere un documento per un progetto di lavoro.
Il nostro sé futuro ci appare come uno sconosciuto
Secondo uno studio del 2013 che ha coinvolto Sirois e Tim Pychyl, professore di psicologia e membro del Gruppo di ricerca sulla procrastinazione della Carleton University di Ottawa, la procrastinazione può essere vista come la supremazia della soddisfazione dell’umore a breve termine, contro l’importanza del raggiungimento delle azioni a lungo termine. In altre parole, procrastinare serve a occuparsi immediatamente delle sensazioni negative che attribuiamo a un certo compito, spostando l’attenzione su altro.
Ma il sollievo è solo momentaneo. Terminata l’azione che abbiamo messo tra noi e il compito che sappiamo di dover fare, le sensazioni negative torneranno anche più forti di prima. Ad esse infatti si aggiungerà il senso di colpa e l’abbassamento di autostima dato dal non essere riusciti, ancora una volta, ad avere la giusta determinazione. Ma allora perché continuiamo a procrastinare? La risposta sta proprio in quel sollievo momentaneo: al nostro cervello piace essere ricompensato, e quindi tenderà a cercare altre piccole ricompense, in un ciclo senza fine.
Secondo la ricerca dello psicologo Hal Hershfield, professore di marketing alla UCLA Anderson School of Management, percepiamo il nostro “sé futuro” più come un estraneo che come parte di noi stessi. Quando procrastiniamo, una parte del nostro cervello pensa che le cose che stiamo rimandando siano un problema di qualcun altro. Come se ne esce?
Possibili soluzioni
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Una possibilità è perdonarci nei momenti in cui procrastiniamo. Uno studio del 2010 ha mostrato che gli studenti che riuscivano a perdonarsi per avere procrastinato studiando per un esame, finivano per procrastinare meno nell’esame successivo. Invece che sul peso delle azioni passate, riuscivano a focalizzarsi sul futuro.
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Un’altra strategia è quella dall’auto-compassione, che permette di trattare se stessi con gentilezza e comprensione di fronte ai fallimenti del passato.
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Concentrarsi sulle sensazioni positive provate in passato quando abbiamo portato a termine un compito, invece di rimandarlo. Assieme alle sensazioni possiamo pensare a tutte le conseguenze positive che ha avuto, al fatto che siamo stati apprezzati per il nostro lavoro, che ci siamo potuti concentrare su altro, che abbiamo avuto un riconoscimento economico, ecc.
Come gestire gli stati d’animo collegati alla procrastinazione
Coltivare la curiosità. Quando siete tentati dalla procrastinazione, pensate alle sensazioni che questo suscita nel vostro corpo. Da quali sentimenti nasce la tentazione? Cosa sentite nel corpo? Che cosa vi ricorda? Cosa succede al pensiero della procrastinazione se provate a osservarlo? Aumenta o diminuisce?
Un’azione alla volta. Non si tratta solo di scomporre un compito complesso in tante azioni semplici, ma di concentrare l’attenzione solo sulla “prossima azione”. È una sorta di auto-inganno per cui sganciamo lo sguardo dalla montagna all’orizzonte, e ci concentriamo sul prossimo passo. “Cosa farei se volessi scalare la montagna, posto che non lo sto facendo?”.
Rendere le tentazioni più scomode. Se proprio i consigli precedenti vi sembrano troppo astratti, si può partire da qui. Se per esempio il vostro problema sono i social media, disinstallate le app dal telefono. Oppure fate in modo che per accedere dobbiate inserire ogni volta una password molto lunga. Allungate la strada che vi separa dalle vostre tentazioni, e ci andrete meno spesso.
Procrastinare è una questione profondamente esistenziale, e solleva questioni relative alla spinta individuale all’azione. Ma ci avverte anche del fatto che siamo tutti ugualmente vulnerabili ai sentimenti negativi, e che vogliamo solo essere felici delle scelte che facciamo.