scrivaniaSe siete tra coloro che sistematicamente non trovano le chiavi di casa quando è il momento di uscire (di fretta, perché siete in ritardo); se il desktop del vostro computer è così pieno di icone che quel bellissimo paesaggio caraibico sullo sfondo è ormai irriconoscibile; se in camera vostra non c’è più differenza tra la pila dei vestiti sporchi, quelli appena lavati e quelli che non usate più; ebbene, avete bisogno di un professional organizer. Forse non siete a conoscenza di questa professione, eppure in Italia si sta diffondendo già da alcuni anni, soprattutto grazie all’attività dell’associazione Apoi, che raggruppa tutti coloro che operano in questo settore.

Tra essi, da qualche tempo, c’è la persona che abbiamo intervistato, Paola Tursi, classe 1982, di Milano. Prima di avvicinarsi a questo mestiere, Paola ha lavorato in ambito cinematografico come producer per documentari e film. I concetti di organizzazione, ottimizzazione, razionalizzazione di tempi, costi e spostamenti le erano quindi già familiari e si è trovata da subito a proprio agio anche lontano dalle macchine da presa. Perché sia chiaro fin dall’inizio, il professional organizer non è semplicemente una persona che cerca in tutti i modi di imporre al proprio utente una rigida organizzazione del lavoro e dei ritmi di vita, in nome di una fede cieca nella pianificazione e nell’ordine.

«Lavoriamo principalmente sulla sfera emotiva delle persone – spiega Paola –. Se uno si trova bene in uno stato di caos apparente, sa sempre dove trovare le cose, il disordine della casa o dell’ufficio non gli crea perdite di tempo o un intimo disagio, non c’è motivo perché ci sia un intervento da parte nostra. Al contrario, il nostro contributo può essere fondamentale quando c’è un disturbo: l’obiettivo finale è che la persona stia bene». Per esempio? «Il caso tipico della giornata lavorativa di molte persone, soprattutto chi lavora in un ufficio, magari in open space, è di arrivare alla sera, dopo otto ore passate davanti al computer, con la sensazione di non aver concluso nulla. Al mattino si comincia a fare una cosa, la si interrompe per rispondere a una mail, nel frattempo arriva una telefonata da parte del capo. Poi si cerca di riprendere la concentrazione per continuare, ma poco dopo una notifica sul cellulare o su Skype porta nuovamente a interrompere il lavoro. E così, tra un’interferenza e l’altra, la giornata si trascina senza che il soggetto riesca a portare a termine il lavoro che si era prefissato». Un quadro in cui si riconosceranno in molti. Ma come se ne esce?

«C’è una serie di tecniche, espedienti e metodi che permettono di insegnare alla persona a gestire le priorità, a sapere rimandare a un secondo momento ciò che non è urgente in modo da privilegiare attività che richiedono periodi più lunghi di concentrazione, che bisogna saper gestire». Già, la concentrazione: sembra quasi di parlare di un’oasi perduta, minacciata decenni fa dall’avvento della televisione in ogni casa (e poi quasi in ogni stanza) e ora totalmente spazzata via dalla continua disponibilità di dispositivi di ogni tipo da controllare (o meglio da cui farsi controllare) compulsivamente. «Per mantenere alta la concentrazione e portare a termine singoli obiettivi – riprende Paola – talvolta invitiamo a sfruttare la “tecnica del pomodoro”, ossia un sistema di conteggio del tempo di lavoro che aiuta ad alternare in maniera proficua i momenti di attività (in cui isolarsi per un tempo stabilito, di solito 25 minuti, e concentrarsi appieno su una sola cosa) a quelli di pausa». Sicuramente un argomento da approfondire, che potrebbe aiutare molti a superare la frustrazione da lavoro inconcludente e frammentato e aumentare la produttività, portando anche a vivere con maggiore serenità il tempo passato in ufficio.

L’esempio più classico relativo alla sfera domestica è quello dell’armadio: «Chi più chi meno, tutti abbiamo nell’armadio molti vestiti che non usiamo più, che ogni volta guardiamo con disagio perché ci fanno ricordare un acquisto sbagliato, attivando un senso di colpa per lo spreco di denaro, oppure la nostra inerzia nel non deciderci a venderli o regalarli, dando loro una nuova vita. Recentemente, con Apoi abbiamo tenuto un incontro nella sede dello show room One Garage Sale di Milano, che prevedeva dimostrazioni pratiche di come organizzare l’armadio, come ottimizzare gli spazi e come ridurre il superfluo, affiancate alla vendita degli abiti recuperati nelle case».

Uno dei fantasmi contro cui combattono i professional organizers è il disturbo da accumulo, riconosciuto come malattia mentale nel Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (Dsm) IV. «La patologia ha delle caratteristiche specifiche, molto più complesse rispetto alla generale tendenza a conservare e accumulare perché “non si sa mai”; è una malattia su cui i professional organizers possono intervenire in collaborazione con uno psichiatra, nel momento in cui questi ritenga che il paziente è pronto per questa fase. Più in generale si può dire che il professional organizer può intervenire sia in accordo con il terapeuta, nei casi di disturbo da accumulo, sia nell’educazione (per fare in modo che i bambini crescano con capacità di organizzarsi in autonomia), e in generale in tutte quelle occasioni in cui la persona necessiti di fare spazio e ordine nella propria vita e nella propria testa, cercando di recuperare un benessere che sente perduto.

Talvolta sottovalutiamo lo stress che può derivare dal fatto di accumulare cose inutili, che arrivano a coprire quelle che invece ci servono e vorremmo trovare subito. Avere tutte le superfici della casa occupate da oggetti abbandonati alla polvere può provocare un senso di oppressione. Molti tendono ad accumulare cose in ogni angolo della casa: non le usano mai, ma non riescono a liberarsene. Il primo passo è prendere consapevolezza degli oggetti. Farne un inventario e scegliere ciò da cui si vuole davvero essere circondati. Tante cose si possono regalare o vendere». L’estate porta con sé, oltre alle vacanze, lo stress organizzativo a esse collegato. Nelle prossime settimane proveremo ad approfondire la questione, con qualche consiglio concreto per evitare che ansie inutili finiscano per introdursi silenziosamente in valigia.