L’Italia in questi giorni sembra il Paese delle meraviglie. Improvvisamente, da quando la campagna elettorale è entrata nel vivo, dalle bocche dei vari leader escono promesse e rassicurazioni su decine di iniziative che essi metteranno in atto subito, una volta insediati, se l’elettorato italiano darà loro la fiducia. Sembrano già un lontano ricordo la macchina burocratica, la pratica degli “insabbiamenti” e i vari ricatti che da sempre bloccano il nostro Paese su una serie di riforme su cui sono tutti d’accordo, ma poi puntualmente non se ne fa nulla. Qualche esempio? Chi si ricorda la questione del conflitto d’interessi? Se ne parla a più riprese da almeno un quindicennio, ma nessuno sembra mai avere trovato il tempo di proporre un progetto di legge e sostenerlo fino alla sua approvazione finale. Oppure, continuando a volo d’uccello, viene in mente il riordino delle province. Qui si è arrivati al paradosso di fermarsi a un passo dalla riforma che avrebbe dovuto tagliare una serie di istituti e quindi anche la spesa pubblica per enti che non hanno ragione di continuare a esistere. Invece è ancora tutto fermo, e anzi la questione sembra passata in secondo piano nei programmi elettorali.
Come fa notare Gian Antonio Stella sul Corriere, «Sono due settimane che l’Ansa non fa un titolo di politica sulla spending review. Nel solo 2012 erano stati 1.887, più di cinque al giorno, Natale e Ferragosto compresi. Non esiste pensosa analisi politologica che possa illustrare meglio come i leader impegnati nella campagna elettorale si siano sbarazzati della fastidiosa zavorra di quelle parole che per un anno avevano inchiodato alle sue responsabilità un Paese che troppo a lungo ha vissuto al di sopra dei propri mezzi». Meglio parlare di tagli delle tasse, di riduzione delle aliquote, ossia di tutti quegli interventi adottati appena un anno fa e che ora avrebbero già raggiunto lo scopo. «I sacrifici? Già fatti. I tagli? Già sufficienti. Il risanamento? Già avviato», prosegue Stella. E in effetti la campagna elettorale segna il trionfo della facilità, come se improvvisamente tutto ciò che non si è fatto negli ultimi vent’anni fosse a portata di mano, in maniera trasversale nei vari schieramenti. Ci permettiamo di diffidare, se permettete.
La tendenza sembra essere traslata dagli eletti (o meglio aspiranti tali) agli elettori, se confrontiamo questo atteggiamento con un altro fenomeno messo in rilievo da un collega che con Stella ha portato avanti numerose inchieste, Sergio Rizzo. Questi scrive, sempre per il Corriere, a proposito dell’esplosione del gioco d’azzardo online in Italia. Ne abbiamo parlato anche noi, concentrandoci però sul fenomeno delle sale slot, che si moltiplicano a vista d’occhio in tutto il territorio. Dobbiamo ricrederci sul fenomeno del gambling online, che sottostimavamo, visto che il nostro Paese ha stabilito un preoccupante record mondiale: «“Abbiamo meno dell’uno per cento della popolazione mondiale e il 22 per cento del mercato globale dei giochi online”, garrisce un comunicato stampa diffuso lunedì da Netmediacom, riportando i risultati di uno studio del portale Netbetcasino.it. […] nel 2012 i nostri connazionali hanno speso 15 miliardi e 406 milioni. Una cifra colossale, che fa impallidire perfino la somma pure enorme investita dai francesi: 9 miliardi 408 milioni. E gli inglesi, inventori delle scommesse? Si sono fermati a 3 miliardi appena, a poca distanza dagli spagnoli: 2 miliardi 354 milioni».
Tutto questo è aggravato dal fatto che l’Italia è anche il Paese che ha visto una maggiore flessione del prodotto interno lordo pro capite a prezzi costanti fra il 2001 e il 2011, con un calo del 3,8 per cento. Peggio di noi nessuno, nemmeno il Portogallo che, seppure in saldo negativo, si è fermato a un -0,9 per cento. Segno che, così come i politici, anche gli elettori (ma bisogna sempre chiedersi chi ha influenzato chi: è nato prima l’uovo o la gallina?) hanno perso contatto con la realtà e questo li porta ad affidare le proprie frustrazioni alla possibilità di una facile vincita in cambio di pochi spiccioli. Con la complicità dello Stato, che ci guadagna (poco peraltro).